Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL FATTO CHE UNA LAVORATRICE LICENZIATA PROVVEDA ALLE FACCENDE DOMESTICHE NON CONSENTE, IN CASO DI ANNULLAMENTO DEL LICENZIAMENTO, DI DEDURRE DALL'IMPORTO DEL RISARCIMENTO LA RELATIVA RETRIBUZIONE FIGURATIVA - In base all'art. 18 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 9968 del 12 maggio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Vigolo).

Rosa N., medico alle dipendenze della s.r.l. Casa di Cura Villa Pini Abruzzo, è stata licenziata perché, a causa di una serie di assenze per malattia, ha superato il periodo di comporto. Ella ha impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Chieti, sostenendo che numerose assenze erano dovute ad un infortunio sul lavoro, costituito dal fatto che, per curare i pazienti, ella aveva contratto l'epatite B e che il contratto collettivo escludeva la cumulabilità delle assenze per infortunio sul lavoro ai fini del superamento del periodo di comporto. Il Pretore, basandosi sui risultati di una consulenza tecnica medico-legale, ha annullato il licenziamento, ha ordinato la reintegrazione della lavoratrice ed ha condannato l'azienda al risarcimento del danno in misura pari alla retribuzione relativa al periodo dal licenziamento alla reintegrazione. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Chieti. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro, che la consulenza tecnica non poteva considerarsi valido mezzo di prova e che comunque, dall'importo del risarcimento andava sottratto il reddito da attività di casalinga, in quanto la lavoratrice, nel periodo successivo al licenziamento, aveva potuto dedicarsi alle faccende domestiche.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 9968 del 12 maggio 2005, Pres. Sciarelli, Rel. Vigolo) ha rigettato il ricorso. Per quanto concerne l'utilizzabilità della consulenza tecnica a fini probatori, la Corte ha richiamato la sua giurisprudenza secondo cui la consulenza tecnica di ufficio, che in genere ha la funzione di fornire al giudice la valutazione dei fatti già probatoriamente acquisiti, può costituire fonte oggettiva di prova quando si risolva anche in uno strumento di accertamento di situazioni rilevabili solo con il concorso di determinate cognizione tecniche. Nel caso in esame, pertanto - ha osservato la Corte - correttamente il giudice di appello ha valorizzato gli accertamenti dell'ausiliare tecnico per affermare che essi, in uno con l'epoca di insorgenza della malattia, deponevano per l'origine professionale della stessa. Esaminando la consulenza tecnica, il che è consentito al giudice di legittimità trattandosi di parte integrante della motivazione della sentenza appellata - ha aggiunto la Corte - si rileva che il consulente tecnico ha concluso affermando che l'affezione (epatite B) era stata determinata probabilmente, ma non con certezza in occasione del lavoro svolto presso la Casa di cura, anche se poteva avere avuto altra origine non determinabile; il consulente tecnico ha peraltro precisato che la trasmissione della malattia avviene per inoculazione diretta tramite aghi e materiale biologico infetto. Il Tribunale ha accertato che Rosa N., come assistente socio sanitaria con mansioni di collaborazione con il personale infermieristico era stata esposta al rischio; inoltre la lavoratrice era stata riscontrata affetta da epatite cronica persistente in portatrice di sindrome emolitica, in occasione di un ricovero dell'agosto - settembre 1981 e quindi prima del ricovero del 1986 per gravidanza e del 1987 per colecistectomia; pertanto, seppure la positività sierologica per il virus dell'epatite B risale al 30 maggio 1988 - ha affermato la Corte - appare condivisibile il convincimento del giudice di merito circa il fatto che (in relazione all'epoca di insorgenza della malattia), sia pure sotto il profilo probabilistico l'infezione sia stata contratta proprio nell'espletamento dell'attività ospedaliera; l'infortunio sul lavoro può ravvisarsi anche quando si verifica l'azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell'organismo umano, ne determinano l'alterazione dell'equilibrio anatomo-fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell'attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell'infezione; la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici.

Per quanto concerne la determinazione del risarcimento, la Corte ha osservato che, mentre è certo che dalla mancata percezione delle retribuzioni nel periodo tra il licenziamento e l'ordine di reintegrazione derivò alla lavoratrice un danno risarcibile, non può detrarsi da tale danno un reddito meramente "figurativo" quale quello ipotizzato dalla Casa di cura, commisurabile all'attività di casalinga. D'altra parte, se può prospettarsi che dallo stato di un occupazione potesse derivare la possibilità di Rosa N. di applicarsi con maggior agio alle attività domestiche - ha concluso la Corte - non è provato che alle stesse attività ella non si fosse dedicata anche in costanza del rapporto di lavoro, sia pure sobbarcandosi, come sovente avviene per il lavoro femminile, ad un doppio sacrificio, senza avvalersi di una collaboratrice domestica.


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