Legge e giustizia: giovedė 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

LA DEQUALIFICAZIONE COSTITUISCE UN DANNO IN SČ, IL CUI RISARCIMENTO DEVE ESSERE DETERMINATO ANCHE IN VIA EQUITATIVA - A meno che il cambiamento in peggio delle mansioni sia avvenuto con il consenso del lavoratore, per tutelare la sua occupazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 11727 del 18 ottobre 1999, Pres. Lanni, Rel. Mazzarella).

M.G., operaio metalmeccanico di IV° livello, dipendente della S.p.A. Nuova Vamatex, ha chiesto al Pretore di Bergamo la condanna della datrice di lavoro al risarcimento del danno per dequalificazione professionale, per essere stato adibito a mansioni di addetto alla pulizia dei macchinari, mentre in precedenza svolgeva quelle di montatore esterno. L’azienda si è difesa sostenendo, tra l’altro, che il dipendente aveva consentito al demansionamento, determinato da esigenze organizzative in una situazione di crisi. Il Pretore di Bergamo ha accolto la domanda, liquidando il risarcimento, in via equitativa, nella misura di lire 10 milioni circa. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dal Tribunale di Bergamo che ha escluso l’esistenza di un danno patrimoniale risarcibile, sia perché il lavoratore aveva comunque percepito la retribuzione prevista per il suo inquadramento, sia perché egli non aveva fornito prove in merito ad un concreto pregiudizio alla sua vita di relazione, alle sue aspettative di promozione e carriera ecc. Contro la sentenza del Tribunale hanno proposto ricorso in Cassazione sia il lavoratore che, in via incidentale, l’azienda. Il primo ha censurato la decisione per avere escluso l’esistenza di un danno risarcibile, mentre la seconda ha fatto carico al Tribunale di non avere adeguatamente considerato la tesi, da essa sostenuta, dell’esistenza ad un consenso al demansionamento.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11727 del 18 ottobre 1999, Pres. Lanni, Rel. Mazzarella), ha accolto entrambi i ricorsi. Per quanto concerne il risarcimento del danno la Corte ha ritenuto che il Tribunale abbia disatteso i principi da essa stabiliti nella sentenza n. 13299 del 16 dicembre 1992, secondo cui la dequalificazione, in quanto lesione della personalità del lavoratore, tutelata dalla Costituzione, costituisce un danno in sé il cui risarcimento deve essere liquidato anche in via equitativa, in base all’art. 1226 cod. civ. La Corte ha richiamato in particolare il seguente passo della motivazione della sentenza n. 13299 del 1992 concernente il caso di un giornalsta demansionato: “Per quanto concerne la fattispecie attuale è da aggiungere che fra tali modi di essere - specialmente in riferimento anche ai valori democratici e lavoristici proclamati dall'art. 1 Cost. - assume prioritario rilievo l'esigenza che sia risarcito il pregiudizio subito dal lavoratore in conseguenza di una dequalificazione che oltre ad essere in violazione del diritto alla qualifica di cui all'art. 2103 cod. civ., sia anche il risultato di un fatto, per altro verso, già di per sé ingiusto e lesivo di un diritto fondamentale dello stesso lavoratore, in quanto cittadino. Ne consegue che un fatto come quello in esame, che si incentra (in sostanza) prima ancora che sulla qualifica, sul ‘vulnus’ alla personalità ed alla libertà del lavoratore-giornalista, contiene necessariamente, oltre che la potenzialità del danno, una inseparabile carica di effettività (senza che ciò significhi ricorso a presunzioni) per la diminuzione del patrimonio professionale, anche ai fini dell'ulteriore sviluppo di carriera, del lavoratore ingiustamente rimosso dalle mansioni corrispondenti alla sua qualifica. Quindi il danno va risarcito: questo è l'essenziale, che, cioè, un risarcimento (la cui misura va fissata dal giudice del rinvio, che, ove ne concorrano le condizioni, potrà procedere anche con il ricorso al criterio di cui all'art. 1226 C.C.) vi deve essere, perché resti tutelata l'esigenza del libero svolgimento dell'attività lavorativa e della salvaguardia della personalità e libertà del lavoratore".

Nel caso in esame – ha affermato la Corte – il Tribunale avrebbe dovuto liquidare il risarcimento in via equitativa. In merito al ricorso incidentale dell’azienda, la Corte ha ritenuto che il Tribunale sia incorso in difetto di motivazione escludendo l’esistenza di un consenso del lavoratore al demansionamento. In proposito la Corte ha richiamato la sua giurisprudenza (Cass. 29.11.1988 n. 6441 ed altre), secondo cui: “la modifica in peggio delle mansioni del lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l’esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma”. La Corte ha pertanto affidato al giudice di rinvio il compito di accertare l’esistenza o meno di un legittimo consenso e, in caso negativo, di liquidare il danno in via equitativa.


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