Legge e giustizia: sabato 27 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

LA CLASSIFICAZIONE DI UN'AZIENDA NEL SETTORE INDUSTRIALE AI FINI PREVIDENZIALI NON ESCLUDE L'APPLICABILITĄ AI DIPENDENTI DEL CONTRATTO COLLETTIVO DEL COMMERCIO - Vige il principio del “doppio binario” (Cassazione Sezione Lavoro n. 12345 del 5 novembre 1999, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri).

R.S. ha lavorato per circa 30 anni, dal 1961 al 1991, alle dipendenze della S.p.A. Ligabue Catering che gli ha applicato il contratto collettivo del settore commercio. La stessa azienda però ha ottenuto dall’Inps il passaggio, ai fini contributivi, dal settore del commercio a quello dell’industria alimentare e manifatturiera sostenendo che la sua attività aveva natura industriale per analogia con quella alberghiera. Cessato il rapporto R.S. ha promosso nei confronti della ex datrice di lavoro, davanti al Pretore di Venezia, un giudizio diretto ad ottenere l’applicazione, con effetto retroattivo, del trattamento previsto dal contratto collettivo per i dipendenti dell’industria alimentare e conseguentemente il pagamento delle differenze di retribuzione maturate in suo favore in misura di circa 60 milioni. Il lavoratore ha invocato l’art. 2070 cod. civ., secondo cui l’appartenenza alla categoria professionale ai fini dell’applicazione del contratto collettivo si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore.

Sia il Pretore che, in grado di appello, il Tribunale di Venezia hanno escluso il diritto del lavoratore al trattamento previsto dal contratto per l’industria alimentare. Il Tribunale, nella motivazione della sua decisione, ha affermato tra l’altro che l’art. 2070 cod. civ. ha perso l’efficacia pubblicistica che aveva prima del 1944, nel regime corporativo e che pertanto la scelta del contratto collettivo rientra nell’autonomia privata. Inoltre il Tribunale ha escluso di potere accogliere la domanda in base all’art. 36 Cost. Rep., in quanto il lavoratore non aveva offerto elementi di giudizio tali da comprovare l’inadeguatezza della retribuzione da lui percepita ed ha ritenuto irrilevante la circostanza che ai fini contributivi l’azienda avesse ottenuto la classificazione nel settore industriale.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12345 del 5 novembre 1999, Pres. Ianniruberto, Rel. Vidiri) ha rigettato il ricorso del lavoratore, richiamando la sua giurisprudenza (Sezioni Unite n. 2665 del 26.2.97), secondo cui il primo comma dell’art. 2070 cod. civ. non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune che ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiano fatto adesione. Pertanto – ha affermato la Corte - nell'ipotesi di rapporto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell'attività svolta dall'imprenditore, il lavoratore non può aspirare all'applicazione di un contratto collettivo diverso se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma può solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato; vige in materia il principio della libertà sindacale - tutelato non soltanto dall'art. 39 Cost., ma anche dal precedente art. 2 poiché il sindacato rientra fra le formazioni sociali ivi previste - dal quale deriva la possibilità di applicazione di un contratto collettivo di diritto privato, vale a dire non imposto erga omnes a persone che non vi abbiano (direttamente o indirettamente) aderito e che vi sarebbero, quindi, assoggettate in base unicamente a definizioni o delimitazioni autoritative delle categorie professionali, atteso che nessuna norma impone la categoria professionale quale strumento coattivo di organizzazione dei datori e dei prestatori di lavoro. Questo sistema – ha osservato la Corte - non comporta in alcun modo la lesione dei diritti fondamentali del lavoratore, perché l'applicazione del contratto collettivo voluto dalle parti non priva completamente di rilievo il contratto di categoria (non voluto e perciò di per se inapplicabile), quante volte il primo preveda una retribuzione non proporzionata alla quantità e qualità della prestazione lavorativa e perciò in contrasto con l'art. 36, 1 comma, Cost.

La Corte ha escluso che l’inquadramento ai fini previdenziali dell’azienda abbia effetti vincolanti in materia di regolamentazione del trattamento economico dei dipendenti. Se si considera il rilievo indubbiamente pubblicistico che assume la classificazione ai fini previdenziali ed assistenziali e se si considera altresì che la legislazione sulla cassa integrazione guadagni, sulla fiscalizzazione degli oneri sociali, sugli interventi per le aree depresse ecc. è destinata ad operare nell'area pubblica dell'economia – ha osservato la Corte - si comprende agevolmente perché in tale area la classificazione delle imprese debba necessariamente avvenire sulla base di criteri oggettivi e predeterminati, e perché, conseguentemente, in materia previdenziale, non possa trovare spazio quella libertà e quella flessibilità di regolamentazione che caratterizza il trattamento normativo ed economico dei lavoratori, e che consente alle parti sociali di scegliere - seppure nei limiti innanzi specificati - la contrattazione collettiva destinata a meglio regolare il rapporto di lavoro tra la impresa ed i propri dipendenti. Il sistema vigente, definito del c.d. "doppio binario" – ha affermato la Corte - trova chiara conferma a livello normativo nell'art. 49 della legge 9 marzo 1988 n. 89 ("Classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali ed assistenziali"), che impone la classificazione dei datori di lavoro alla stregua di criteri di natura oggettiva e predeterminata, che non lasciano alcun spazio a scelte discrezionali o a processi di "autodeterminazione normativa".


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