Legge e giustizia: sabato 20 aprile 2024

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I GIUDICI MILANESI SI SONO COMPORTATI CORRETTAMENTE QUANDO HANNO SVOLTO ACCERTAMENTI PRESSO LA CAMERA DEI DEPUTATI SUGLI IMPEGNI DELL'ON. CESARE PREVITI - Deve escludersi che essi abbiano dato prova di "grave inimicizia" (Cassazione Sesta Sezione Penale n. 7798 del 27 febbraio 2002, Pres. Fulgenti, Rel. Ippolito).

Prima di chiedere, come Silvio Berlusconi, alla Suprema Corte, il trasferimento da Milano a Brescia, per "legittimo sospetto" (art. 55 cod. proc. pen) del processo per corruzione in corso a suo carico, motivando l'istanza con riferimento a comportamenti ostili attribuiti ai giudici milanesi, il deputato Cesare Previti ha presentato alla Corte di Appello di Milano, nei confronti degli stessi giudici, una dichiarazione di ricusazione, in base all'art. 64 cod. proc. pen., per "inimicizia grave".

La ricusazione è stata motivata con argomenti analoghi a quelli poi utilizzati per la richiesta di rimessione, sulla quale la Corte dovrà pronunciarsi nel prossimo futuro. Secondo l'imputato, i giudici milanesi hanno tenuto un comportamento gravemente anomalo quando, in seguito ad una sua richiesta di rinvio dell'udienza del 7 maggio 2001, per la necessità di partecipare ad una votazione della Camera, hanno svolto accertamenti presso la Camera per mezzo della Cancelleria e, constatato che la votazione avrebbe avuto luogo alle 12,30, hanno rinviato l'udienza per ragioni di opportunità. La Corte d'Appello ha rigettato la ricusazione con ordinanza del 16 maggio 2001. Contro questo provvedimento l'on. Previti ha proposto ricorso davanti alla Suprema Corte, per difetto di motivazione e violazione di legge.

Con sentenza del 27 febbraio 2002 n. 7798, la Cassazione (Sesta Sezione Penale, Pres. Fulgenti, Rel. Ippolito) ha dichiarato inammissibile il ricorso affermando che la ricusazione per "inimicizia grave" non può essere motivata con riferimento a comportamenti tenuti dal magistrato nell'ambito del processo in quanto deve essere fondata su dati di fatto concreti e ben precisi estranei alla realtà processuale.

Peraltro - ha aggiunto la Corte - i giudici milanesi, nel caso in esame, si sono comportati correttamente e non hanno emesso alcun provvedimento anomalo. E', infatti, pacifico che, al di fuori delle ipotesi tassative di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione, "trovano applicazione, nei confronti dell'imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali", tra cui "le regole che sanciscono il diritto dell'imputato di partecipare alle udienze, e la correlativa previsione di rinvio dell'udienza in caso impossibilità assoluta per l'imputato di essere presente per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento". Ciò è stato affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 225 del 2001.

In tale decisione, la Corte Costituzionale ha ribadito che compete al giudice applicare le comuni regole processuali in tema di legittimo impedimento anche nei confronti dell'imputato parlamentare ed ha evidenziato il dovere, nell'apprezzare l'assolutezza o meno dell'impedimento invocato per chiedere il rinvio dell'udienza, di tenere conto "non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell'applicazione delle regole comuni".

La Suprema Corte ha ricordato la sua costante giurisprudenza secondo cui l'imputato che intende allegare la propria assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento ha l'onere di dare prova piena della sussistenza delle condizioni che legittimano o impongono il rinvio del dibattimento, e tale prova non può essere fornita da una certificazione generica o incompleta, né è configurabile, in capo all'organo giudiziario, alcun obbligo di procedere d'ufficio alla sua acquisizione quando questa sia in atti insussistente o insufficiente, fatta salva, in ogni caso, la facoltà del giudice di verificare l'effettiva sussistenza dello stato di fatto dedotto come impedimento a comparire.

Tenuto conto delle puntualizzazioni operate dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 225 del 2001, occorre precisare - ha aggiunto la Cassazione - che la partecipazione ad una seduta della Camera di appartenenza ben può costituire legittimo impedimento per fondare la richiesta di rinvio del dibattimento da parte dell'imputato parlamentare; poiché la legge (art. 486 comma 1 c.p.p. vecchio testo e art. 420-ter comma 1 c.p.p.) prescrive che il giudice disponga il rinvio ad una nuova udienza quando "risulta" che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, l'imputato membro del parlamento, direttamente o tramite il difensore, al momento della richiesta di rinvio, deve fornire idonea prova dell'assoluto impedimento derivante dall'esercizio di funzioni parlamentari; quando tale prova sia insufficiente o attualmente impossibile, come nel caso in cui l'impedimento venga adotto con riferimento a momento futuro rispetto alla presentazione della richiesta di rinvio, poiché l'impedimento è connesso all'esercizio delle funzioni parlamentari e non alla mera convocazione della seduta della Camera, il giudice, pur senza averne l'obbligo, ha il potere di verificare la sussistenza dell'impedimento.


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