Fra le più vistose contraddizioni del momento, in materia di amministrazione della giustizia, vi è da un lato la tendenza ad eliminare uno dei tre gradi del giudizio, l'appello, per snellire il sistema, e dall'altro l'istituzione, di fatto, di un quarto grado, in sede politica, riservato a soggetti privilegiati. Ne è recente dimostrazione il decreto legge varato dal Governo per proteggere le banche dalle conseguenze di una sentenza della Suprema Corte in materia di interessi sui mutui. Il grido di dolore levatosi dal mondo bancario per questa decisione ha trovato prontamente ascolto, perché la decisione della Suprema Corte, fondata sui consolidati principi del nostro ordinamento, ha colpito nel segno evidenziando l'indecenza del comportamento di chi, infischiandosene della legge, ha fatto pagare ai mutuatari interessi usurari. Ma, sul piano della correttezza istituzionale, ciò che rileva non è l'esattezza o meno della pronuncia della Suprema Corte. Anche se essa fosse stata clamorosamente sbagliata, le banche, come qualsiasi comune cittadino, avrebbero dovuto continuare a difendersi sul piano giudiziario, affrontando eventuali altre cause promosse dai mutuatari e cercando di ottenere nuove e diverse pronunce della Suprema Corte. Prima che un orientamento giurisprudenziale si consolidi, con il definitivo avallo delle Sezioni Unite, occorre che le questioni in gioco siano esaminate ripetutamente e da diversi collegi. Il rimedio del decreto legge è sostanzialmente contrario al principio di eguaglianza ed ha una portata altamente diseducativa, in un paese ancora lontano dalla effettiva realizzazione dello Stato di diritto. Il messaggio che esso dà ai cittadini è l'impotenza della giustizia nei confronti dei potenti.
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