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DISTINZIONE FRA "PALPEGGIAMENTO" E "PACCA REPENTINA" SUL SEDERE DI UN'IMPIEGATA - Può ritenersi che una pacca non costituisca atto di libidine (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 623 del 25 gennaio 2001, Pres. Ietti, Rel. Ebner).

Pubblichiamo il testo integrale della decisione, la sintesi è nella sezione Il Contesto.

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.: 

Dott. Guido IETTI

Presidente

Dott. Giuliana FERRUA

Consigliere

Dott. Giuseppe SICA

       "

Dott. Vittorio Glauco EBNER

       "

Dott. Mario ROTELLA

       "

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sui ricorsi proposti da:

Procuratore generale presso la Corte di Appello di Venezia; 2) M. E. nato a B. il 17.3.19963;

avverso la sentenza in data 11.4.2000 della Corte di Appello di Venezia.

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed i ricorsi.

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dr. Ebner

Udito, per la parte civile, l'avv. --

Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. F. Cosentino

Che ha concluso per annullamento con rinvio della impugnata sentenza

Uditi i difensori avv. L. Ravagnan del Foro di Venezia; avv. Bettiol Foro di Padova

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 6.4.1994 il Tribunale di Venezia affermava la penale responsabilità di M. E., imputato a) del reato di cui all'art. 521, 61 n. 9 CP, perché abusando delle sue funzioni di amministratore straordinario della USSL n. 15 Basso Piave e pertanto superiore gerarchico di D. A., il 10.3.1993, in S. Donà di Piave, compiva sulla predetta atti di libidine diversi dalla congiunzione carnale, consistiti nel palpeggiare il sedere della vittima contro la sua volontà; b) del reato di cui agli artt. 56, 610 comma primo, 61 n. 9 e n. 11 CP, perché nei giorni successivi al 10.3.1993, minacciando ripetutamente a D.A. un ingiusto danno e problemi alla sua carriera, valendosi delle sue funzioni e delle influenti amicizie presso detta USSL, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a convincere la donna a non denunciarlo per gli atti di libidine di cui al capo che precede.

Il Tribunale, riconosciute a M.E. le generiche attenuanti prevalenti sulle contestate aggravanti, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e sei mesi di reclusione (applicando, inoltre, la pena accessoria della interdizione dai pp. uu. per la durata di un anno) ed al risarcimento dei danni ed alla refusione delle spese in favore della costituita parte civile.

A seguito dell'impugnazione proposta da M.E., la Corte di Appello di Venezia, con sentenza in data 11.4.2000, in riforma della impugnata sentenza, assolveva l'imputato dal reato di cui al capo a) perché il fatto non costituisce reato e dichiarava non doversi procedere per il reato sub b), perché estinto per prescrizione.

La sentenza è stata gravata da ricorso per cassazione, proposto sia dal Procuratore Generale presso la Corte veneziana, sia dall'imputato, tramite il proprio difensore.

Motivi della decisione

Con un unico articolato motivo, il P.G. deduce manifesta illogicità della motivazione quanto alla pronuncia di assoluzione dell'imputato dal reato di cui al capo a), per avere la Corte, erroneamente interpretando le risultanze processuali, ritenuto assente un qualsiasi intento dell'imputato di arrecare, con il suo gesto, offesa alla sfera sessuale di D. A.

Il ricorso si risolve in una censura in punto di fatto alla decisione impugnata, con la quale i Giudici di secondo grado hanno invece offerto un'adeguata e non manifestamente illogica spiegazione del convincimento raggiunto.

Sicché, le relative valutazioni non possono essere sindacate in questa sede sulla base delle diversa lettura ed interpretazione delle risultanze processuali che la parte propone, tenuto conto che al Giudice di legittimità compete soltanto di verificare la esistenza o meno di un apparato motivazionale adeguato e coerente del provvedimento impugnato.

Nella specie, la Corte veneziana, con puntuali richiami alle acquisite risultanze probatorie, ha ritenuto per un verso dimostrato che un'isolata e repentina pacca sul sedere della donna vi fu, e, per l'altro, che l'imputato non intese compiere un vero e proprio atto di libidine sulla donna, non essendo emersi elementi per ritenere che il gesto, e cioè quel toccamento, fosse rappresentativo di un gesto di concupiscenza di natura sessuale.

Orbene, tale motivazione non evidenzia alcuna manifesta illogicità: sicché, il ricorso del PG, basato com'è soltanto su una diversa valutazione delle prove raccolte, va, per quanto finora rilevato, dichiarato inammissibile.

Quanto all'imputato, il medesimo deduce violazione di legge sostanziale (521 CP) e processuale (530 cpp), per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto insussistente solo l'elemento soggettivo del reato contestato: senza considerare che, in realtà, non è stata raggiunta la prova dell'esistenza dello stesso elemento materiale del reato contestato (nella specie, il c.d. palpeggiamento); sì che la pronuncia assolutoria avrebbe dovuto essere quella più ampia, perché il fatto non sussiste.

Ritiene questa Corte che la censura sia manifestamente infondata, dal momento che il gesto incriminato risulta avere pur sempre un'obbiettiva incidenza sulla sfera della riservatezza sessuale: sicché giuridicamente corretta è la decisione impugnata laddove solo per la mancanza di prova di un intento propriamente libidinoso dell'agente ha ritenuto, con riguardo al caso di specie, non punibile il fatto addebitato a M.E.

Quanto, poi, alla richiesta del ricorrente di annullamento della sentenza in ordine alla pronuncia di non doversi procedere per il reato di tentata violenza privata, in quanto logicamente e probatoriamente collegato al reato a sfondo sessuale, è appena il caso di rilevare che il relativo accertamento richiederebbe il rinvio al Giudice di merito, mentre tale regressione è incompatibile con la esistenza di una causa di improcedibilità dell'azione penale, già accertata e dichiarata dalla Corte veneziana.

La richiesta, nei limiti in cui si risolve in una censura in diritto alla impugnata decisione, è pertanto manifestamente priva di fondamento.

Il ricorso di M.E. deve essere dunque dichiarato inammissibile ed il ricorrente condannato, ai sensi dell'art. 616 cpp, al pagamento delle spese del procedimento e della somma di £. 1.000.000 alla Cassa delle ammende.

PQM

Dichiara inammissibile i ricorsi.

Condanna il ricorrente M. E. al pagamento delle spese del procedimento e della somma di £. 1.000.000 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma il 24 novembre 2000

F.to Il Presidente
Guido Ietti


F.to Il Consigliere estensore
Vittorio Glauco Ebner

Depositato in cancelleria il 23 gennaio 2001


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