Nel 1995 la società Plantamura ha licenziato tredici dipendenti a seguito della perdita dell'appalto per la distribuzione delle derrate alimentari destinate alla refezione scolastica nel Comune di Miloro. L'azienda non ha seguito la procedura stabilita dalla legge n. 223 del 1991 per la riduzione di personale che, nel caso di licenziamento di almeno cinque lavoratori nell'arco di 120 giorni da parte di azienda con oltre 15 dipendenti, prevede la preventiva informazione delle organizzazioni sindacali, l'applicazione di oggettivi criteri di scelta ed altri adempimenti. I lavoratori licenziati si sono rivolti al Pretore di Milano, che, ritenuta la sussistenza di una riduzione di personale soggetta alla legge n. 223 del 1991, ha dichiarato l'inefficacia dei licenziamenti per inosservanza della prescritta procedura e ha ordinato la reintegrazione dei ricorrenti nei posti di lavoro. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dal Tribunale di Milano. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che la legge n. 223 del 1991 si applica solo quando si verifica una riduzione o una trasformazione di attività o di lavoro, mentre in questo caso era stato necessario procedere ai licenziamenti per la perdita di un appalto e non per una scelta dimensionale operata dall'imprenditore. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 2463 del 4 marzo 2000, Pres. Santojanni, Rel. Di Lella) ha rigettato il ricorso, affermando che ai fini dell'applicazione della legge n. 223 del 1991 è sufficiente l'esistenza dei requisiti numerici da essa previsti, riferiti ai licenziamenti e all'organico aziendale. Non è più dato pertanto ravvisare, come in precedenza, una diversità ontologica fra licenziamento collettivo determinato da uno stabile ridimensionamento dell'azienda e pluralità di licenziamenti individuali per ragioni organizzative concernenti i singoli posti di lavoro soppressi. Nella legge n. 223 del 1991 il riferimento, dell'art 24, 1° e 2° comma, alle ragioni che giustificano la riduzione del personale ("riduzione o trasformazione di attività o di lavoro" ovvero "cessazione di attività") non vuole individuare - ha affermato la Corte - un presupposto di differenziazione qualitativa o ontologica rispetto ai licenziamenti individuali plurimi, trattandosi di una formula ampia, di portata omnicomprensiva delle ragioni inerenti l'impresa, ma è piuttosto finalizzato ad evidenziare il necessario collegamento dei licenziamenti collettivi (ma che caratterizza anche i licenziamenti individuali plurimi per motivo oggettivo) a motivi "non inerenti la persona del lavoratore" (come più esplicitamente precisa il principio normativo comunitario posto dall'art 1 lett. a) della Direttiva CEE 75/129). Ne consegue allora che solo il requisito numerico - temporale, e non la ragione addotta a giustificazione del provvedimento espulsivo, distingue il licenziamento collettivo da quello individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo. Pertanto, una volta accertata la sussistenza del presupposto numerico - temporale, ed una volta verificato che la risoluzione del rapporto non è collegata a motivi inerenti la persona del lavoratore, diventa ultronea ogni ulteriore indagine per accertare la ragione della riduzione di lavoro, e se la stessa derivi da cessazione di appalto o da altra causa. Risulta pertanto priva di pregio - ha osservato la Corte - l'obiezione per la quale la cessazione di un appalto, costituendo non già un dato patologico, ma piuttosto un evento fisiologico nel normale alternarsi con l'acquisizione di nuovi appalti, non determina di norma, per effetto del licenziamento, una stabile riduzione di attività; si tratta infatti, di circostanza irrilevante, nel regime normativo introdotto dalla legge n. 231/1991, ai fini della distinzione del licenziamento collettivo da quello individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo.
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