La relazione del Primo Presidente della Suprema Corte Vincenzo Carbone sull'amministrazione della Giustizia nell'anno 2007, traccia tra l'altro, il bilancio dell'attività della Corte nel settore civile menzionando alcune sentenze, per l'esattezza 14 (di cui sei delle Sezioni Unite, quattro della I Sezione e quattro della III Sezione) che hanno espresso indirizzi giurisprudenziali di particolare rilievo, concorrendo alla elaborazione del "diritto vivente". Riportiamo di seguito il paragrafo VII della relazione annuale, intitolato "Il bilancio dell'attività della Corte nel settore civile": 1. - Premessa. Le linee di tendenza. Il bilancio di un anno di attività deve necessariamente chiudersi con uno sguardo al futuro, alle nuove sfide che si propongono per gli studiosi del diritto in generale e per gli operatori in particolare. La giurisprudenza civile di legittimità dell'anno appena decorso offre all'interprete la possibilità di individuare alcune linee evolutive del sistema che si pongono all'attenzione per la chiarezza e la coerenza con le quali emergono ad una prima lettura delle sentenze. La Corte è consapevole della complessità del sistema del quale essa è parte, governato da una pluralità di fonti e caratterizzato da un rapporto sempre più stretto con gli altri ordinamenti - stranieri, sopranazionali e comunitari - e con le altre Corti Supreme. In questo contesto, la Corte di Cassazione svolge una insostituibile funzione: quella di concorrere, nel dialogo con gli altri Giudici e con gli stimoli della dottrina, ad elaborare il diritto vivente e a disegnarne i nuovi orizzonti, perché sia salvaguardato il valore dell'uniformità e della prevedibilità delle decisioni dei Giudici - momento ineliminabile di un'effettiva eguaglianza di tutti davanti alla legge - e siano, al contempo, perseguiti obiettivi di razionalizzazione e di più ampia garanzia del cittadino che ricorre al Giudice per la tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive.
2. - La nomofilachia in senso dinamico. Questa peculiarità di ruolo - di custode dinamico, nei cambiamenti in atto, della esatta interpretazione della legge a confronto delle situazioni in cui essa è applicabile - emerge plasticamente dalla sentenza 28 dicembre 2007, n. 27187, con la quale le Sezioni Unite hanno fatto applicazione del potere, previsto dall'art. 363 c.p.c., nel testo introdotto dall'art. 4 del d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, di enunciare nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il Giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. L'esercizio di tale potere, avente carattere discrezionale, è stato ricondotto alla funzione di nomofilachia assegnata alla Corte di Cassazione, in virtù della quale essa, mentre in presenza di ricorsi ammissibili enuncia normalmente la regola del caso concreto, può eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio idonea a valere come criterio di decisione per la soluzione di casi analoghi o simili, nel caso in cui non possa decidere sulla fattispecie concreta sottoposta al suo esame. E' significativo che la particolare importanza della questione di diritto, cui è subordinato l'esercizio di tale potere, non va apprezzata unicamente in relazione alla sua incidenza in rapporto alla normativa, ma anche in relazione agli elementi di fatto, come gli interessi in gioco nelle controversie in cui può rilevare la soluzione della questione. Le Sezioni Unite, dopo aver dichiarato l'inammissibilità del ricorso proposto avverso una decisione cautelare del Giudice ordinario, con cui era stato ordinato al Commissario delegato per l'emergenza rifiuti in Campania di astenersi dall'installare e porre in esercizio l'impianto di discarica dei rifiuti nel territorio di un Comune, hanno così enunciato il principio di diritto secondo cui nelle materie riservate alla giurisdizione esclusiva dei Giudici amministrativi, come quella della gestione del territorio, anche quando sia dedotta la lesione di diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, quali il diritto alla salute, come effetto di un comportamento materiale che sia espressione di poteri autoritativi della pubblica amministrazione e conseguente ad atti di cui sia denunciata l'illegittimità, la cognizione spetta al Giudice amministrativo, tanto se la controversia verta in ordine alla sussistenza in concreto dei diritti vantati, quanto se verta in ordine al contemperamento di tali diritti con l'interesse generale all'ambiente salubre, oppure all'emissione dei provvedimenti cautelari necessari per assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione finale. La motivazione addotta dalla Corte a sostegno dell'esercizio di tale potere si ricollega alle origini storiche del ricorso nell'interesse della legge, ed in particolare alla contrapposizione tra l'interesse pubblico all'esatta interpretazione della legge (c.d. jus constitutionis), che l'istituto è rivolto a soddisfare, e l'interesse privato alla sentenza giusta (c.d. jus litigatoris), irrimediabilmente pregiudicato dall'inammissibilità del ricorso. Il riferimento alla necessità di valutare l'importanza della questione di diritto anche in relazione agli interessi in gioco introduce nell'istituto un profilo ulteriore, collegato ad una possibile funzione deflativa, particolarmente evidente nel caso deciso dalle Sezioni Unite, in cui la Corte ha dato espressamente atto della pendenza di altre controversie aventi il medesimo oggetto. La stessa vicenda, nascente dall'impugnazione di un'ordinanza emessa in sede di reclamo avverso un provvedimento cautelare, sembra poi confermare che l'istituto è destinato a dimostrare la propria utilità soprattutto là dove, a fronte di un ricorso straordinario avverso provvedimenti non decisori o non definitivi, la Corte intenderà esprimere un indirizzo uniforme in materie ordinariamente sottratte al proprio sindacato di legittimità.
3. - La persona umana, la sua dignità e le conquiste della scienza. Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, la nomofilachia non si risolve in un ripiegamento autoreferenziale. La Corte mostra una crescente attenzione per le soluzioni elaborate dalle Corti sopranazionali ed anche delle Corti Supreme di altri Stati, in funzione di un'acquisita consapevolezza delle necessità di attingere strumenti interpretativi anche al di fuori dell'orizzonti interno delle fonti, specie per la soluzione di questioni che attengono ai valori fondamentali della persona umana. La sentenza n. 21748 Sez. I, del 16 ottobre 2007, nel risolvere una questione attinente alle problematiche di fine vita e nell'elaborare la regola di giudizio applicabile con riguardo ai limiti dei trattamenti sanitari sulla persona umana che versi in stato di totale ed assoluta incoscienza e che sia mantenuta artificialmente in vita proprio grazie a quei trattamenti, si pronuncia espressamente sul ruolo che può svolgere, nel sistema delle fonti normative, l'accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora eseguito all'interno dello Stato, e guarda - all'evidente fine di riempire di contenuto un bilanciamento tra valori attento alla logica orizzontale e compositiva della ragionevolezza - alle decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo e delle Corti straniere. Il principio di diritto affermato è che ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, il Giudice può, a certe condizioni, autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario, sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona. La sentenza interviene in una situazione di carenza di una specifica disciplina legislativa, nella consapevolezza che il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al Giudice una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali, i quali rappresentano non soltanto un parametro per sollevare questioni di legittimità costituzionale, ma anche il principio cui ispirarsi nella interpretazione sistematica.
4. - Il riparto di giurisdizione e l'effettività della tutela. Un'altra linea guida della giurisprudenza della Corte di Cassazione è rappresentata dalla ricerca di soluzioni interpretative improntate al canone dell'effettività della tutela. D'ora in poi, il processo, iniziato erroneamente davanti ad un Giudice che non ha la giurisdizione indicata, può continuare davanti al Giudice effettivamente dotato di giurisdizione, onde dar luogo ad una pronuncia di merito che conclude la controversia, comunque iniziata, realizzando in modo più sollecito ed efficiente il servizio Giustizia, costituzionalmente rilevante. La novità è stata introdotta dalla sentenza 22 febbraio 2007, n. 4109 delle Sezioni Unite, con cui si è affermato che la translatio iudicii opera sia nel caso di ricorso ordinario ex art. 360, comma primo, n. 1), cod. proc. civ., sia nel caso di regolamento preventivo di giurisdizione proponibile non solo dinanzi al Giudice ordinario, ma anche innanzi al Giudice amministrativo, contabile o tributario. La sentenza muove da una lettura costituzionalmente orientata del sistema, in virtù della quale il principio del giusto processo e l'effettività del diritto di difesa impongono il superamento dell'opinione secondo cui la trasmigrazione del processo, con la conseguente salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda, è possibile solo quando il Giudice preventivamente adìto sia titolare della potestas iudicandi interna al medesimo ordine giudiziario, e ciò per consentire al processo di pervenire ad una pronuncia di merito, evitando uno spreco di attività processuale. Premesso che in tema di giurisdizione, pur non sussistendo una disciplina della riassunzione analoga a quella riguardante la competenza, non è neppure espressamente previsto il divieto della trasmigrazione del processo dal Giudice ordinario a quello speciale, la Corte ha ritenuto che la conferma dell'ammissibilità della translatio iudicii nei rapporti tra Giudice ordinario e Giudici speciali possa essere tratta dagli artt. 382, primo e terzo comma, 367, secondo comma, e 386 c.p.c., dai quali si desume che la pronuncia di Cassazione senza rinvio non deve essere emessa in tutte le ipotesi in cui il Giudice di legittimità stabilisce che la sentenza impugnata è stata emessa da un Giudice sfornito di giurisdizione, ma solo in quei casi in cui, affermando che né il Giudice che detta sentenza ha emesso né alcun altro Giudice è fornito di giurisdizione, ritiene, perciò, che ricorre, in relazione alla pretesa avanzata dalla parte, l'ipotesi di improponibilità assoluta della domanda sia innanzi al Giudice ordinario che al Giudice speciale. Su questo tema si è aperto un confronto a seguito della successiva sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007, la quale ha in particolare distinto, sul piano strutturale, la trasmigrabilità del processo dalla conservazione degli effetti della domanda, sostenendo che la prima costituisce uno strumento importante ma non sufficiente a garantire la seconda, e ritenendo quindi necessaria, per assicurare tale salvaguardia, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 30 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, nella parte in cui non prevede la conservazione degli effetti della domanda nel processo proseguito, a seguito di declinatoria di giurisdizione, davanti al Giudice munito di giurisdizione, ispirandosi tale norma, viceversa, al principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio.
5. - Il sistema delle obbligazioni e dei contratti. L'approfondimento dei temi classici del diritto civile - i confini tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale; i mezzi estintivi delle obbligazioni; il rapporto tra regole di comportamento e regole di validità del contratto - ha consentito alla Corte di affinare soluzioni attente ad una realtà economica in continua evoluzione e, al contempo, suscettibili di ulteriori sviluppi e ricadute sistematiche. Quando si interroga sulla natura - contrattuale o extracontrattuale - della responsabilità della banca negoziatrice di assegni bancari (o circolari) non trasferibili, la quale abbia pagato detti assegni al non legittimato, in violazione delle specifiche regole poste dalla disciplina speciale dei titoli di credito, la sentenza 26 giugno 2007, n. 14712, delle Sezioni Unite, muove dalla considerazione che le regole di circolazione e pagamento dell'assegno munito di clausola di non trasferibilità, pur svolgendo un'indiretta funzione di rafforzamento dell'interesse generale alla circolazione dei titoli di credito, sono essenzialmente volte a tutelare l'interesse di coloro che alla circolazione di quello specifico titolo sono interessati. Questi ultimi, infatti, hanno ragione di confidare che l'assegno verrà pagato solo con le modalità e nei termini che la legge prevede, la cui concreta attuazione, proprio per questo, è rimessa a un banchiere, ossia ad un soggetto dotato di specifica professionalità a questo riguardo. Ed è proprio dalla professionalità del banchiere, che dispone di strumenti e competenze che normalmente altri soggetti non hanno, che sorge l'obbligo - preesistente, specifico e volontariamente assunto - di far sì che il titolo sia introdotto nel circuito di pagamento bancario in conformità delle regole che ne presidiano la circolazione e l'incasso. In quanto ricollegabile alla violazione di detto obbligo, la responsabilità in questione ha natura contrattuale, indipendentemente dalla possibilità di configurare la banca negoziatrice come mandataria della banca emittente o trattaria, con la conseguenza che l'azione risarcitoria è soggetta all'ordinario termine di prescrizione decennale, anziché a quello quinquennale proprio della responsabilità extracontrattuale. Particolare interesse, per la portata espansiva che li caratterizza, rivestono gli argomenti addotti a sostegno di tali conclusioni, avendo le Sezioni Unite affermato, sulla scorta di precedenti pronunce, che la responsabilità contrattuale non si ricollega necessariamente all'inadempimento di un obbligo derivante da un contratto, ma può discendere anche dalla violazione di obblighi nascenti da situazioni di semplice contatto sociale, ogni qualvolta l'ordinamento imponga di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento. In quest'ottica, mentre la responsabilità extracontrattuale consegue alla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, quella contrattuale presuppone l'inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto, che può derivare tanto da una fonte legale o contrattuale, quanto da altri fatti leciti. Torna pertanto in evidenza il concetto di contatto sociale, cui la Corte ha fatto ricorso in passato con riferimento alla responsabilità dell'ente ospedaliero per i danni causati dal fatto doloso o colposo dei propri dipendenti, a prescindere da una prestazione professionale contrattualmente offerta al paziente, nonché, in materia di appalti pubblici, con riguardo alla responsabilità dell'ente committente per la lesione degli interessi legittimi connessi alla partecipazione ad una gara pubblica, derivante dalla violazione delle relative disposizioni. L'utilizzazione di tale categoria appare suscettibile di ulteriori sviluppi proprio nel settore bancario, così come in altri settori in cui nei quali la legge pone specifici obblighi a carico di un imprenditore, a tutela di tutti i soggetti che si avvalgono dei servizi da lui offerti, nonché dei terzi che possono ricevere indirettamente pregiudizio dallo svolgimento di tale attività. Superando il precedente orientamento, secondo cui l'invio di assegni bancari o circolari da parte del debitore obbligato al pagamento di una somma di denaro si configura come datio in solutum, la cui efficacia liberatoria dipende dal preventivo assenso del creditore ovvero dalla sua accettazione, la sentenza n. 26617 - Sez.Un. 18 dicembre 2007 - afferma il principio secondo cui nelle obbligazioni pecuniarie di importo inferiore a 12.500 euro o per le quali non sia imposta dalla legge una diversa forma di pagamento, il debitore ha facoltà di pagare, a sua scelta, in moneta avente corso legale nello Stato o mediante consegna di assegno circolare: mentre nel primo caso il creditore non può rifiutare il pagamento, e l'obbligazione si estingue con la consegna della moneta, nella seconda ipotesi il rifiuto deve ritenersi ammesso solo per giustificato motivo, da valutarsi secondo la regola della correttezza e della buona fede oggettiva, e la liberazione del debitore ha luogo solo nel momento in cui il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro. Ancora una volta, l'innovativa soluzione muove dalla presa d'atto della mutata realtà socioeconomica, attraverso la constatazione che, in un contesto nel quale la circolazione del denaro tende a realizzarsi con strumenti sempre più sofisticati, la cui utilizzazione è in alcuni casi resa obbligatoria dalla stessa legge, l'assegno costituisce ormai un mezzo normale di pagamento. Si impone pertanto un'interpretazione evolutiva dell'art. 1277 c.c., in virtù della quale devono considerarsi ammissibili sistemi di pagamento diversi dalla consegna materiale del denaro, purché essi garantiscano al creditore il medesimo effetto del pagamento in contanti, e cioè la materiale disponibilità della somma dovuta. Tale effetto è sicuramente ricollegabile all'assegno circolare, la cui emissione postula la precostituzione della provvista ed ha luogo attraverso l'intermediazione di una banca, che provvede a mettere la somma a disposizione del creditore, restando a carico del debitore, il quale si libera solo con il buon fine dell'operazione, l'eventualità che la banca non sia in grado di assicurare la conversione del titolo in moneta legale. Ma la sentenza lascia trasparire un'ampia apertura verso l'utilizzazione di mezzi alternativi al denaro, in conformità con le esigenze di sicurezza e velocità dei pagamenti connesse all'intensificazione e alla diversificazione delle transazioni economiche. Il significato delle regole di comportamento nella sistematica del contratto e dei mezzi di tutela del contraente, in un settore delicato quale quello degli investimenti nel mercato mobiliare del consumatore, costituisce l'oggetto dell'approfondimento della sentenza 19 dicembre 2007, n. 26724. Con tale pronuncia, le Sezioni Unite - attente a ricomporre un quadro normativo stratificato, nel quale concorrono e si confrontano disposizioni anche di legge speciale, spesso di derivazione comunitaria - ribadiscono la tradizionale impostazione secondo la quale, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto (quale categoria che ricomprende non solo le ipotesi che attengono alla struttura ed al contenuto del contratto, ma anche quelle in cui sussiste un divieto, assoluto o condizionato, di stipulazione del vincolo negoziale) è suscettibile di determinarne la nullità. Ma significativamente precisano che ciò non significa affatto assenza o diminuzione di tutela per l'investitore. Difatti, la violazione delle norme, anch'esse imperative, che impongono una condotta secondo correttezza e buona fede, è fonte di responsabilità, da cui insorge l'obbligo di risarcimento del danno - ove la violazione si compia nella fase prenegoziale - e - nel caso in cui essa intervenga durante l'attuazione del rapporto contrattuale e si traduca in un non corretto adempimento del generale dovere di protezione e degli specifici obblighi di prestazione gravanti sul contraente - anche la possibilità di azionare il rimedio della risoluzione. Ne consegue che, in tema di intermediazione finanziaria, la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguenze risarcitorie, ove dette violazioni avvengano nella fase antecedente o coincidente con la stipulazione del contratto di intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti (cd. "contratto quadro", il quale, per taluni aspetti, può essere accostato alla figura del mandato); può dar luogo, invece, a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto suddetto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del "contratto quadro".
6 - L'attenzione verso le clausole generali. Non solo in quest'ultima pronuncia è rinvenibile l'attenzione privilegiata della Corte verso le clausole generali, viste anche come mezzo di tutela rafforzata nel cittadino nei confronti del gestore di servizi pubblici. Con la sentenza n. 23304 - Sez. III 8 novembre 2007 - si è affermato che è contrario a buona fede il comportamento del gestore (nella specie, di servizi telefonici) che, non avendo ricevuto notizia dalla banca dell'avvenuto pagamento di una bolletta, effettui immediatamente il distacco della linea senza verificare se il pagamento fosse stato eseguito. Un'importante applicazione del principio di buona fede nell'interpretazione e nell'esecuzione dei contratti è contenuta nella sentenza n. 15669 - Sez. I 13 luglio 2007 - in materia di contratti bancari e fallimento, nella quale viene evidenziato che la cessazione del vincolo contrattuale, in particolare intervenuta per effetto del fallimento del cliente, non estingue con immediatezza ogni rapporto tra le parti, permanendo una serie di obbligazioni di derivazione contrattuale alle quali corrispondono posizioni di diritto soggettivo fondate sull'obbligo di buona fede e del generale dovere di solidarietà. Proprio in virtù della integrata rete costituzionale e legislativa di riferimento, la Corte amplia l'obbligo informativo e documentativo della banca, precisando che il diritto del cliente si estende alla richiesta della documentazione che comprovi i singoli passaggi scanditi negli estratti conto ma allo stesso tempo, e gli impone un obbligo di collaborazione consistente, tra l'altro, nel carico delle spese necessarie. Coerente con la rigorosa applicazione del principio di buona fede nei contratti bancari deve ritenersi l'orientamento seguito dalla Corte in alcune sentenze relative alla prova della pattuizione degli interessi in misura superiore al tasso legale (sentenze nn. 10692 e 2137). Si riscontra in generale nelle pronunce relative ai contratti bancari la scelta di una definizione rigorosa dell'onere della prova a carico della banca, fondata oltre che sulla necessità del rispetto del principio di buona fede, sul principio di prossimità della prova, che informa tutte le tipologie di contratti caratterizzate da una forte asimmetria informativa e documentale tra le parti. Lo squilibrio nel possesso e nella possibilità di ottenere le informazioni e i documenti necessari si manifesta in modo ancora più evidenti nei contratti bancari in considerazione sia dell'elevato tecnicismo anche delle informazioni rese ai clienti sia delle potenzialità conoscitive e documentali dell'uso della memoria informatica. Nella prima delle due pronunce viene confermata la nullità della pattuizione extralegale degli interessi quando il criterio di determinazione del tasso applicabile non sia desumibile per relationem, specificamente in qualsiasi momento del rapporto, ma consenta soltanto l'individuazione della "forbice" tra top rate e prime rate entro la quale la percentuale può collocarsi, lasciando alla banca il potere discrezionale dell'indicazione puntuale. Il criterio della determinabilità del tasso extralegale viene più analiticamente precisato con la pronuncia n. 2137, nel senso che il contenuto della pattuizione deve essere univoco e contenere la puntuale specificazione del tasso d'interesse anche quando sia stato previsto un tasso variabile. Il principio di buona fede, fondato non solo sulle norme codicistiche ma su un dovere di solidarietà di fondamento costituzionale, nell'imporre alle parti il rispetto di canoni comportamentali di collaborazione e di non aggravamento della posizione della controparte, è regola di condotta non solo di diritto sostanziale, ma anche di diritto processuale, precludendo condotte abusive del creditore nella fase di tutela giudiziale del credito contrastanti anche con il principio del giusto processo. La più importante ed ampia affermazione di tale principio è contenuta nella sentenza 15 novembre 2007, n. 23726, con cui le Sezioni Unite, mutando il precedente indirizzo, hanno affermato che non è consentita al creditore la frammentazione in plurime e distinte domande dell'azione giudiziaria per l'adempimento di una obbligazione pecuniaria. E' agevole individuare le conseguenze che, anche nella prassi degli operatori del diritto, è destinata ad avere tale sentenza: essa varrà a stroncare una pratica diffusa quanto iniqua, secondo la quale un inadempimento relativo ad un'unica fornitura poteva dar luogo ad una molteplicità di domande giudiziali, in cui il credito veniva spezzettato portando ad un aumento esponenziale dell'esborso da parte del debitore, a fronte di molteplici liquidazioni a suo carico di spese legali ed esecutive. E' auspicabile che il principio di diritto affermato contribuisca a produrre una contrazione del contenzioso.
7.- La tutela del consumatore. Nell'area contrattuale, la tutela del consumatore rimane sempre uno dei temi più scandagliati e ritenuti maggiormente meritevoli di tutela. Così, ai fini della identificazione del soggetto legittimato ad avvalersi della "tutela forte" di cui alla disciplina degli articoli 1469 bis e segg. cod. civ. , la Corte - progredendo nella sua attività di ricostruzione ermeneutica e sistematica della relativa disciplina - ha precisato (con la sentenza della Sez. III, 8 giugno 2007, n. 13377) che la qualifica di "consumatore" spetta solo alle persone fisiche, quindi non alle società, e la stessa persona fisica che svolga attività imprenditoriale o professionale potrà essere considerata alla stregua del semplice "consumatore" soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'esercizio di dette attività. Infatti, deve essere considerato "professionista" tanto la persona fisica, quanto quella giuridica, sia pubblica che privata, che invece utilizzi il contratto nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del "professionista" non è pertanto necessario che il contratto sia posto in essere nell'esercizio dell'attività propria dell'impresa o della professione, essendo sufficiente - come si evince dalla parola "quadro", di cui al secondo comma dell'articolo 1469 bis cod. civ. - che esso venga posto in essere per uno scopo connesso all'esercizio dell'attività imprenditoriale o professionale. Sempre in tema di tutela del consumatore e di clausole vessatorie, la sentenza n. 19366 - Sez. III, 18 settembre 2007 - con riferimento alla clausola di un contratto di somministrazione che consentiva al fornitore di aumentare unilateralmente il prezzo già fissato in conformità alle norme previste dai provvedimenti legislativi in materia, a seguito di eventuali modifiche del prezzo dipendenti dall'andamento del mercato, ha precisato che l'incremento eccessivo e non giustificato del prezzo rispetto a quello iniziale - in quanto non suppone necessariamente che, nell'economia complessiva del rapporto, ne risulti per forza alterato l'aspetto funzionale dell'adeguatezza delle rispettive prestazioni - non incide sulla causa del contratto e non determina lo squilibrio tra le rispettive prestazioni, ma assume la diversa qualificazione di presupposto di legittimazione dell'azione di recesso, per cui gli aumenti del prezzo, autorizzati ad iniziativa unilaterale del professionista, possono essere praticati "ad libitum" sino alla soglia dell'eccesso, la quale, se non è stata definita in anticipo dalle parti, deve essere verificata dal Giudice in sede di contestazione dell'efficacia della clausola.
8. - L'illecito extracontrattuale. Da sempre l'area della cosiddetta responsabilità aquiliana conosce incisivi e variegati sviluppi evolutivi, sia con riferimento alla struttura dell'illecito extracontrattuale, sia con riguardo alla compensabilità di nuove figure di danno. L'anno 2007 conferma questo giudizio complessivo. Due tendenze meritano di essere sottolineate. La prima riguarda l'emancipazione del concetto di nesso di causalità elaborato ai fini civilistici dalla ricostruzione e dalla dogmatica penalistiche. Secondo la sentenza n. 21619 - Sez. III 16 ottobre 2007 - il positivo accertamento del nesso di causalità materiale passa attraverso un giudizio probabilistico fondato sulla regola del "più probabile che non" e il nesso causale deve intendersi come la misura della relazione probabilistica concreta (scevra da ogni riferimento soggettivo) tra comportamento e fatto dannoso (singolarmente e casisticamente intesi), da ricostruirsi anche considerando il fine della norma violata, mentre tutto ciò che afferisce alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale (che includono gli aspetti della previsione e della prevenzione) deve incasellarsi nella componente soggettiva dell'illecito, ovvero nella c.d. colpevolezza. La seconda concerne l'area del c.d. "danno non patrimoniale". Come noto, nel diritto vivente - che ha avuto anche il suggello della Corte costituzionale - il danno non patrimoniale si è venuto a sostanziare in una categoria nella quale devono ricomprendersi le varie ipotesi di lesione di un valore inerente alla persona da qualificarsi costituzionalmente protetto, dalle quali conseguano pregiudizi insuscettibili di valutazione economica. Se nel passato, infatti, si era costretti a condizionare la risarcibilità del pregiudizio derivante da fatto illecito ai requisiti della rilevanza penale della condotta e della patrimonialità del danno, oggi, con vigore, si aprono nuovi scenari della responsabilità aquiliana, ormai ricondotta senza ambiguità alla difesa integrale di valori personali di rilievo costituzionale. Il danno non patrimoniale, perciò, è da intendere come insieme di tutte le ripercussioni negative comportanti una compressione delle attività realizzatrici dell'individuo derivante dall'ingiusta lesione di diritti costituzionalmente garantiti. In questa sfera tutelata, accanto al danno morale soggettivo e al danno biologico, è venuto ad assumere un suo riconoscimento autonomo il danno esistenziale, il quale costituisce attualmente una nuova voce risarcitoria in grado di concentrare una vasta gamma di ripercussioni illecite attinenti alla persona considerata in una propria dimensione relazionale e dinamica. Il punto centrale della questione riguardante tale problematica rimane, in ogni caso, la selezione degli interessi meritevoli di tutela, perché, nel riconoscimento di questa voce innovativa di danno, occorre che non si verifichi un inevitabile snaturamento dell'istituto aquiliano, nella prospettiva di una strisciante soggettivizzazione della lesione e di un ingovernabile allargamento dei confini del danno risarcibile. Di questa preoccupazione si fa portatrice la sentenza n. 22884, Sez. III 30 ottobre 2007. Nel sistema bipolare (danni patrimoniali e non patrimoniali) previsto dalla legge, al di là della questione puramente nominalistica, non è possibile creare nuove categorie di danni, ma solo adottare per chiarezza del percorso liquidatorio voci o profili di danno, con contenuto descrittivo (e a questo fine può essere utilizzata anche la locuzione danno esistenziale, accanto a quella di danno morale e danno biologico), tenendo conto che da una parte deve essere liquidato tutto il danno, ma che dall'altra deve essere evitata la duplicazione dello stesso. Al contempo, si avverte la necessaria esigenza di circoscrivere al massimo le ipotesi entro le quali l'esistenza del danno può essere ritenuta provata in re ipsa, allo scopo di evitare duplicazioni di voci risarcitorie o, a maggior ragione, di riconoscere il risarcimento per danni inesistenti, essendo viceversa necessario che l'attore fornisca la prova della propria pretesa (in questo senso le sentenze della Sez. III n. 15131, del 4 luglio 2007, in tema di danni da fumo attivo, e n. 14846, del 27 giugno 2007, in tema di danno da perdita di animale). Se ne desume che il problema applicativo verte non tanto sulla sussistenza o meno della categoria "danno esistenziale", quanto piuttosto sui problemi riguardanti il quantum debeatur dei vari profili tutelabili, e, perciò, sul problema del costo sociale dei risarcimenti.
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