Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL DANNO DA DEQUALIFICAZIONE PUO' ESSERE ACCERTATO IN VIA PRESUNTIVA - Anche in base alla durata e all'entità del demansionamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 24732 del 7 ottobre 2008, Pres. De Luca, Rel. Balletti).

Attilio S. dipendente del Banco di Sicilia con qualifica di funzionario ha svolto per alcuni anni, sino al 1978, le mansioni di ricerca operativa per la soluzione di problemi relativi alla gestione del credito con l'applicazione di metodologie econometriche. Dopo essere stato colpito da una grave malattia, egli è stato in un primo tempo destinato ad attività di studio e successivamente privato di ogni incarico. Dopo un periodo quadriennale di totale emarginazione dall'attività lavorativa, egli ha chiesto, nel maggio 1996, al Giudice del lavoro di condannare il Banco di Sicilia ad attribuirgli mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte e a risarcirgli i danni causati alla sua professionalità ed alla sua personalità morale. Il Giudice, con sentenza del novembre 1998, ha accolto parzialmente le domande, condannando la banca a reintegrare il lavoratore alle mansioni proprie della qualifica di appartenenza. In grado di appello il Tribunale di Roma, con sentenza del marzo 2004, ha ritenuto che, durante il giudizio, la Banca avesse assegnato al lavoratore un incarico adeguato; conseguentemente ha dichiarato la cessazione della materia del contendere in materia di assegnazione di mansioni. Il Tribunale ha peraltro accolto la domanda di risarcimento del danno professionale, determinando il relativo importo in misura pari al 40% della retribuzione relativa al periodo del demansionamento; ha invece rigettato la domanda di risarcimento del danno di immagine. In proposito il Tribunale ha così motivato la sua decisione: "Nella fattispecie, non sembra possa negarsi che una lesione alla personalità morale ed al bagaglio di capacità professionali si sia verificata sia in considerazione del notevolmente lungo tempo in cui il demansionamento si è protratto (1992 - 1997), sia per l'elevata qualificazione raggiunta dal lavoratore, sia per la considerevole anzianità di servizio, con presumibile raggiungimento di un alto livello di esperienza specifica, sia per il fatto che non sono state semplicemente attribuite mansioni inferiori, ma il lavoratore è stato lasciato quasi in totale inerzia, salvo lo svolgimento di compiti di scarso impegno qualitativo e quantitativo. A diverse conclusioni, invece, può giungersi quanto al più specifico danno all'immagine professionale poiché Attilio S. non ha dedotto specifici elementi di fatto da cui possa desumersi che l'immagine professionale e cioè la stima e la considerazione di cui il lavoratore godeva innanzi tutto nel suo ambiente di lavoro, potesse essere diminuita per effetto del demansionamento, non essendo a ciò sufficiente il fatto in sé della dequalificazione".

Entrambi le parti hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisone del Tribunale di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 24732 del 7 ottobre 2008, Pres. De Luca, Rel. Balletti) ha rigettato entrambi i ricorsi, richiamando la sua giurisprudenza secondo cui il danno da dequalificazione può essere accertato in via presuntiva. Nella specie, come si evince chiaramente dal testo della motivazione - ha osservato la Cassazione - la Corte di merito ha, nell'ambito dell'apprezzamento di fatto di sua competenza, desunto correttamente la sussistenza di un danno (di natura professionale) da demansionamento dall'osservazione che la sostanziale ed assoluta diversità delle mansioni assegnate rispetto a quelle in precedenza svolte determina un grave nocumento all'esperienza, alla professionalità ed alle attitudini del lavoratore, in relazione soprattutto alla "quasi totale inerzia " provocata illegittimamente ad Attilio S. dalla Banca datrice di lavoro. A tale riguardo - ha ricordato la Cassazione - "questa Corte ha di recente statuito che in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 cod. civ., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno determinandone anche l'entità in via equitativa con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova anche presuntiva in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto". (Cass. n. 14729/2006 e n. 14302/2006); giurisprudenza questa che si è sviluppata con riferimento al principio affermato dalle Sezioni Unite secondo cui "il danno esistenziale (provocato da demansionamento) - da intendere come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno - va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo  peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno facendo ricorso, ex art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove" (Cass. Sez. Unite n. 6572/2006).


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