Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

E' PASSIBILE DI LICENZIAMENTO IL DIPENDENTE CHE LEDE L'IMMAGINE DELL'AZIENDA CON PUBBLICHE ACCUSE PRIVE DI FONDAMENTO - In base all'art. 2105 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 29008 del 10 dicembre 2008, Pres. Ianniruberto, Rel. Stile).

Annibale F. dipendente del consorzio Conservco, svolgente servizi di smaltimento rifiuti, nel corso di tre pubbliche assemblee ha accusato il consorzio di avere indebitamente destinato all'incenerimento il materiale derivante dalla raccolta differenziata anziché provvedere al recupero, al riciclaggio e allo smaltimento differenziato dei rifiuti. Le sue dichiarazioni sono state riportate dalla stampa locale. La pubblica amministrazione locale ha chiesto al consorzio chiarimenti su quanto riferito dal lavoratore. In seguito a ciò Annibale F. è stato sottoposto dal consorzio a procedimento disciplinare con l'addebito di avere diffuso informazioni non veritiere e diffamatorie. Il lavoratore si è difeso sostenendo di avere esercitato correttamente il diritto di critica. L'azienda lo ha licenziato. Ne è seguito un giudizio davanti al Tribunale di Verbania, che ha annullato il licenziamento. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Torino, che ha ritenuto legittimo il licenziamento, rilevando che le informazioni diffuse dal lavoratore erano risultate non veritiere e pertanto ingiustamente lesive delle reputazione del Consorzio. La Corte ha tra l'altro rilevato che il lavoratore aveva reiterato le sue pubbliche accuse nonostante l'intervento di un assessore che aveva escluso che si fossero verificati gli episodi da lui riferiti. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Torino per vizi di motivazione e violazione di legge, sostenendo di avere correttamente esercitato il diritto di critica.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 29008 del 10 dicembre 2008, Pres. Ianniruberto, Rel. Stile) ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Torino ha correttamente accertato il superamento, da parte del lavoratore, dei limiti posti dall'ordinamento all'esercizio del diritto di informazione e di critica. La forma della critica - ha affermato la Corte - non è civile non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo informativo da conseguire o difetta di serenità o obiettività o, comunque, calpesta quel minimo di dignità e di immagine cui ogni persona fisica o giuridica ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a leale chiarezza; ciò si riscontra allorquando si ricorra al "sottinteso sapiente", agli accostamenti suggestionanti, al tono sproporzionalmente scandalizzato e sdegnato, specie nei titoli di articoli o pubblicazioni e, quindi, in genere nelle manifestazioni pubbliche, o comunque all'artificiosa e sistematica drammatizzazione con cui si riferiscono notizie neutre, nonché alle vere e proprie insinuazioni. La Suprema Corte ha altresì ritenuto che i giudici dell'appello abbiano correttamente accertato la violazione, da parte del lavoratore, del dovere di fedeltà sancito dall'art. 2105 cod. civ.. L'obbligo di fedeltà, la cui violazione può rilevare come giusta causa di licenziamento - ha affermato la Corte - si sostanzia nell'obbligo di un leale comportamento del lavoratore nei confronti del datore di lavoro e va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ.; il lavoratore, pertanto, deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dall'art. 2105 cod. civ., ma anche da tutti quelli che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso. Ne consegue - ha concluso la Corte - che è suscettibile di violare il disposto dell'art. 2105 cod. civ. e di vulnerare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel lavoratore un esercizio, da parte di quest'ultimo, del diritto di critica che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si sia tradotto - come è avvenuto nel caso di specie - in una condotta lesiva del decoro della impresa datoriale, suscettibile di provocare con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro.


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