Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

L'APPLICAZIONE DEI CRITERI DI SCELTA IN CASO DI RIDUZIONE DEL PERSONALE RICHIEDE UN ANALITICO RAFFRONTO, LE CUI MODALITA' DEVONO ESSERE COMUNICATE ALL'UFFICIO DEL LAVORO - In base alla legge n. 223/91(Cassazione Sezione Lavoro n. 29936 del 22 dicembre 2008, Pres. Picone, Rel. Bandini).

Vincenzo C., dipendente dell'Isveimer spa, è stato licenziato nell'ambito di una procedura di riduzione del personale avviata in seguito alla messa in liquidazione della società. Nel corso della procedura l'azienda ha concordato con le organizzazioni sindacali, come criterio di scelta del personale da licenziare, che essa avrebbe mantenuto in servizio solo il personale munito "della competenza professionale necessaria per il compimento delle operazioni specifiche e finali". Successivamente, con riferimento all'art. 4, par. 9 della legge n. 223/91, l'azienda ha comunicato all'ufficio del lavoro l'elenco del personale licenziato. Vincenzo C. ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Napoli, sostenendo, tra l'altro che l'azienda non aveva correttamente applicato l'art. 4 par. 9 L. n. 223/91 in quanto, nella sua comunicazione all'ufficio del lavoro non v'era la "puntuale indicazione" delle modalità con le quali era stato applicato il criterio di scelta concordato con le organizzazioni sindacali. Nel corso del giudizio l'Isveimer ha dichiarato di avere cessato l'attività azzerando il personale dipendente con effetto dal 1 dicembre 2000. Il Tribunale ha rigettato la domanda del lavoratore. Questa decisione è stata riformata dalla Corte d'Appello di Napoli che ha dichiarato inefficace il licenziamento osservando che l'azienda, nella comunicazione finale, aveva omesso di compiere un analitico raffronto fra le posizioni lavorative e di dimostrare l'avvenuta applicazione di rigorosi e controllabili criteri di scelta. La Corte peraltro non ha ordinato la reintegrazione di Vincenzo C. nel posto di lavoro, in considerazione dell'avvenuta cessazione dell'attività aziendale con effetto dal 1 dicembre 2000, ha limitato il risarcimento del danno all'importo della retribuzione maturata nel periodo dal licenziamento al 1 dicembre 2000 e non ha condannato l'azienda al pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi né al versamento dei contributi previdenziali sulla somma liquidata. Entrambe le parti hanno proposto ricorso per cassazione per vizi di motivazione e violazione di legge. Il lavoratore ha censurato la sentenza impugnata, tra l'altro, per non avere ritenuto che, per far valere la cessazione dell'attività, l'azienda dovesse proporre domanda riconvenzionale, per non avere riconosciuto rivalutazione monetaria e interessi e per non avere condannato la società al pagamento dei contributi INPS sulle somme liquidate a titolo di risarcimento. L'azienda ha censurato la decisione della Corte di Napoli, tra l'altro, per vizi di motivazione in ordine alla ritenuta violazione dell'art. 9 comma 4 L. n. 223/91.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 29936 del 22 dicembre 2008, Pres. Picone, Rel. Bandini) ha rigettato il ricorso dell'azienda e parzialmente accolto quello del lavoratore. Respingendo le censure aziendali la Cassazione ha rilevato che la Corte di Napoli ha correttamente motivato la sua decisione, evidenziando la mancanza di un analitico raffronto tra le posizioni dei lavoratori interessati dalla procedura. In ordine al ricorso del lavoratore, la Suprema Corte ha escluso che l'azienda fosse tenuta a proporre domanda riconvenzionale per far valere la cessazione della sua attività; detta cessazione - ha osservato la Corte - rientra nella libertà di impresa garantita dall'art. 41 della Costituzione e l'avere operato tale scelta rappresenta una circostanza di fatto che può essere introdotta nel processo senza necessità di rispettare alcun formalismo e che inibisce la reintegrazione del lavoratore e il proseguimento del rapporto. La Corte ha accolto la censura del lavoratore relativa ai contributi previdenziali, alla rivalutazione monetaria e gli interessi. La previsione, in ipotesi di declaratoria di inefficacia del licenziamento, di condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi previdenziali (giusta la disposizione di cui all'art. 18, comma 4, legge n. 300/70 nel testo modificato dalla legge n. 108/90) non può essere esclusa nel caso di mancata reintegrazione per effetto della intervenuta (successivamente all'illegittimo licenziamento) cessazione dell'attività aziendale, posto che il rapporto di lavoro deve ritenersi ricostituito nel lasso di tempo intercorrente fra il recesso datoriale e la risoluzione del rapporto stesso per il venir meno del substrato della prestazione lavorativa; pertanto la Corte territoriale avrebbe dovuto pronunciare la condanna della parte datoriale al pagamento dei contributi previdenziali. La Corte di Napoli - ha osservato la Cassazione - ha errato anche quanto ha omesso la condanna dell'azienda al pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi. Il diritto del lavoratore al risarcimento del danno per l'illegittima risoluzione anticipata del proprio rapporto di lavoro - ha affermato la Corte - sorge alla data di tale risoluzione, sicché dalla stessa data devono decorrere rivalutazione ed interessi sul relativo credito, il quale rientra nella nozione di credito di lavoro ai sensi dell'art. 429, comma 3, cod. proc. civ..


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