Legge e giustizia: marted́ 23 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

LA COMUNICAZIONE DI CESSAZIONE DEL RAPPORTO ALLA SCADENZA DI UN CONTRATTO FORMALMENTE DEFINITO DI LAVORO AUTONOMO COSTITUISCE LICENZIAMENTO - Ne consegue l'applicabilità dell'art. 18 St. Lav. (Cassazione Sezione Lavoro n. 29000 del 10 dicembre 2008, Pres. Sciarelli, Rel. Bandini).

Filippina S. ha lavorato per la s.r.l. Dettori Market dal 23 maggio 2001 al 7 agosto 2002 come commessa addetta al reparto ortofrutta. Nei periodi dal 4 luglio al 23 settembre 2001 e dal 2 novembre al 4 dicembre 2001 essa è stata inquadrata come dipendente in base a due contratti a tempo determinato; dal 15 maggio al 7 agosto 2002 ha avuto un contratto di "collaborazione coordinata e continuativa"; nel periodo precedente alla sua assunzione e negli intervalli tra un contratto e l'altro ha percepito, per il suo lavoro, compensi per "prestazioni occasionali" di facchinaggio e volantinaggio. Alla scadenza dell'ultimo contratto, quello definito di "collaborazione coordinata e continuativa" le è stata consegnata una lettera recante la comunicazione della cessazione del rapporto per scadenza del termine. La lavoratrice ha impugnato la comunicazione finale, ritenendola un licenziamento e ha chiesto al Tribunale di Tempio Pausania di accertare che ella aveva lavorato in condizioni di subordinazione nell'intero periodo dal 23 maggio 2001 al 7 agosto 2002, svolgendo sempre le stesse mansioni e di annullare il licenziamento perché privo di giusta causa o giustificato motivo. Il Tribunale, dopo avere assunto la prova testimoniale offerta dalla lavoratrice, ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dalla Corte di Cagliari che ha annullato il licenziamento, ordinando la reintegrazione di Filippina S. nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. A sostegno della sua decisione, la Corte ha affermato quanto segue: "La lavoratrice ha dato piena prova del carattere sostanzialmente unitario del rapporto di lavoro, che, per la sua intera durata - contro le diverse forme che aveva avuto, costituenti mere apparenze volte a sciogliere il datore di lavoro dai suoi obblighi in punto di giusta retribuzione e di recedibilità condizionata alla sussistenza quanto meno di un giustificato motivo - aveva sempre avuto natura di lavoro subordinato; è risultato provato che la lavoratrice ha prestato con continuità attività lavorativa avente natura subordinata, stante il suo inserimento nell'organizzazione aziendale con l'assegnazione di mansioni circoscritte e non implicanti alcuna autonomia decisionale o anche solo operativa, per un periodo ben più lungo di quello risultante dal libretto di lavoro e dai due contratti a tempo determinato prodotti dalla parte datoriale (nei quali il rapporto stesso era stato formalizzato come subordinato), senza che fosse dato cogliere differenza alcuna fra i diversi periodi di lavoro quanto alle mansioni svolte; la comunicazione datoriale del 3.8.2002 aveva natura di licenziamento, peraltro intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo e motivato invece con l'espresso richiamo ad un inesistente spirare dei termine apposto ad un rapporto di lavoro autonomo, mai instaurato fra le parti". L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte di Cagliari per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 29000 del 10 dicembre 2008, Pres. Sciarelli, Rel. Bandini) ha rigettato il ricorso, affermando che la Corte di Cagliari ha correttamente motivato l'accertamento della continuità del rapporto e l'esistenza della subordinazione, sia evidenziando l'avvenuto inserimento di Filippina S. nella organizzazione aziendale, con assegnazione di mansioni circoscritte e non implicanti alcuna autonomia decisionale o anche solo operativa, sia rilevando che non era dato cogliere alcuna differenza fra i diversi periodi di lavoro quanto alle mansioni svolte e che il rapporto stesso, in base ai due contratti a tempo determinato prodotti dalla parte datoriale, era stato formalizzato come subordinato, con ciò conformandosi al condiviso orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui un rapporto di lavoro subordinato può essere sostituito da uno di lavoro autonomo, ma a tal fine è necessario che all'univoca volontà delle parti di mutare il regime giuridico del rapporto si accompagni un effettivo mutamento delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, quale conseguenza del venir meno del vincolo di assoggettamento del lavoratore al datore di lavoro, dovendosi altrimenti presumere, con presunzione semplice, che il rapporto sia proseguito col regime precedente. Ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato - ha ricordato la Corte - non deve prescindersi dalla volontà delle parti contraenti e, sotto questo profilo, va tenuto presente il nomen juris utilizzato, il quale però non ha un rilievo assorbente, poiché deve tenersi conto altresì, sul piano della interpretazione della volontà delle stesse parti, del comportamento complessivo delle medesime, anche posteriore alla conclusione del contratto, ai sensi dell'art. 1362, secondo comma, cod. civ. e, in caso di contrasto fra dati formali e dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità della prestazione, è necessario dare prevalente rilievo ai secondi, dato che la tutela relativa al lavoro subordinato, per il suo rilievo pubblicistico e costituzionale, non può essere elusa per mezzo di una configurazione formale non rispondente alle concrete modalità di esecuzione del contratto. Si deve tenere conto - ha osservato la Corte - che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato, potrebbero aver simulatamente dichiarato di voler un rapporto autonomo al fine di eludere la disciplina legale in materia, ovvero, pur esprimendo al momento della conclusione del contratto una volontà autentica, potrebbero, nel corso del rapporto, aver manifestato, con comportamenti concludenti, una diversa volontà; a tali principi si è sostanzialmente attenuta la Corte territoriale, che, pur non ignorando l'avvenuta conclusione di un contratto a tempo determinato di collaborazione coordinata e continuativa, con motivazione congrua e scevra da elementi di illogicità e contraddittorietà, ha evidenziato come, (anche) nel lasso di tempo regolato da tale contratto, Filippina S. avesse in effetti continuato a svolgere le mansioni di commessa (addetta al reparto ortofrutta) già in precedenza svolte, riguardo alle quali il rapporto era stato formalizzato come di natura subordinata, e nient'affatto quelle, diverse, contemplate dal contratto di collaborazione coordinata e continuativa.

La ritenuta prosecuzione del rapporto lavorativo (subordinato) anche al di là dei termini fittiziamente apposti nel corso del suo svolgimento, secondo quanto accertato in punto di fatto dalla Corte territoriale - ha affermato la Cassazione - comporta che il rapporto stesso, nella sua unitarietà, deve essere considerato come a tempo indeterminato; ne consegue che l'avvenuta stipulazione, nel corso del già costituitosi rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, di un fittizio (e perciò privo di valenza novativa) contratto di collaborazione coordinata e continuativa non può essere considerata idonea a determinare la diversa qualificazione del rapporto stesso (in termini, appunto, di lavoro autonomo), cosicché alla formale comunicazione di risoluzione (per spirare del termine) del contratto di collaborazione fittiziamente stipulato non possono essere applicati i principi elaborati dalla Suprema Corte in tema di disdetta comunicata per scadenza del termine illegittimamente apposto ad un contatto di lavoro subordinato. Pertanto - ha concluso la Corte - nel caso in esame, la comunicazione datoriale, siccome unilateralmente produttiva della cessazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato effettivamente costituito, va qualificata, come licenziamento, nella specie illegittimo siccome non determinato da giusta causa o giustificato motivo.


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