Legge e giustizia: sabato 20 aprile 2024

Pubblicato in : Informazione e comunicazione

LA RICOSTRUZIONE GIORNALISTICA DI UN'INDAGINE GIUDIZIARIA DEVE RISPETTARE IL REQUISITO DELLA COMPLETEZZA - Notizie monche possono assumere valenza diffamatoria (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 45051 del 24 novembre 2009, Pres. Pizzuti, Rel. Bruno).

Nel corso della trasmissione televisiva Porta a Porta dedicata all'omicidio di Alberica Filo della Torre, noto alla cronaca nera come delitto dell'Olgiata (dalla località in cui venne commesso), il conduttore ha sottoposto al dibattito in studio, come sempre affidato ad ospiti appositamente invitati, un servizio giornalistico (o scheda). In esso si passavano in rassegna anche le variegate ipotesi a suo tempo formulate a margine del clamoroso evento delittuoso, accostandolo all'esistenza di misteriosi conti miliardari all'estero, alla relazione extraconiugale che la vittima avrebbe intrattenuto con un funzionario dei servizi segreti, al desiderio della stessa di divorziare dal marito Mattei Pietro, ai fondi neri del SISDE, a presunti depistaggi. Si era pure affermato che dell'omicidio era stato sospettato proprio il marito, poi scagionato grazie all'esame del DNA, accusato da una donna (tale Emilia Parisi) che, peraltro, aveva fornito agli inquirenti nuovi elementi, consegnando anche gli abiti che l'uomo avrebbe indossato il giorno dell'omicidio, senza però riferire che per tali dichiarazioni la stessa Parisi era stata, poi, dichiarata colpevole del reato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del Mattei. A seguito di querela proposta dallo stesso Mattei e dai suoi figli, che avevano ritenuto diffamatorio il contenuto della trasmissione televisiva, il Tribunale di Roma, pur dando atto dell'incompletezza della notizia e dell'approssimazione dell'approccio giornalistico ad una vicenda di particolare complessità, aveva dubitato della valenza diffamatoria, osservando che, a tutto concedere, sarebbe stata operante nella fattispecie l'esimente dell'art. 51 cod. pen., ricorrendone tutti i presupposti, ossia l'interesse pubblico, la verità del fatto narrato e la continenza del modo espositivo. Di tutt'altro avviso si è detta, poi, la Corte d'Appello, che ha, invece, rilevato l'obiettiva valenza diffamatoria del servizio. Al riguardo, ha osservato che dal verbale di trascrizione della trasmissione non risultava la doverosa precisazione che nessuna delle ipotesi prospettate a margine dell'omicidio, ciascuna di per sé diffamatoria, avesse trovato riscontro nelle indagini. Infatti, la sola non conferma riguardava - piuttosto che le piste seguite - il solo fantomatico test DNA in persona del Mattei (o sull'abito asseritamente fornito dalla Parisi), in ordine al quale, peraltro, non era stata acquisito in atti alcun elemento di certezza. Era certo, di contro - ha rilevato la Corte d'Appello - che non tutte le situazioni prospettate costituivano ipotesi investigative, in quanto alcune di esse (quali la presunta relazione adulterina od il desiderio della vittima di divorziare) erano solo congetture giornalistiche, peraltro storicamente smentite dalle persone informate nelle interviste giornalistiche prodotte dalle parti offese; era certo, altresì, che la Parisi, che avrebbe riferito dell'abito del Mattei consegnato agli inquirenti, era stata condannata per diffamazione e della relativa sentenza, passata in giudicato, nella trasmissione non era stato dato atto. Altre notizie, invece, venivano da precedenti servizi giornalistici o da notizie di agenzia, in ordine alle quali - ha rilevato la Corte d'Appello - era mancato il benché minimo controllo da parte dei responsabili della trasmissione. In conclusione, la morte della nobildonna era stata gratuitamente accostata ad una serie di ipotesi oggettivamente diffamatorie, in un contesto oscuro ed inquietante di servizi segreti e depistaggi, con consequenziale pregiudizio per l'onore e la reputazione dei familiari; non ricorrevano i presupposti dell'esimente del diritto di cronaca, per mancanza di verità dei fatti riferiti, sub specie della mancata rigorosa verifica della attualità, al moment della trasmissione, delle variegate e più o meno immaginifiche ipotesi investigative ventilate durante le fasi (precedenti) delle indagini, senza costrutto condotte per anni.

Il conduttore della trasmissione e la giornalista autrice del servizio hanno proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte d'Appello per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Quinta Penale n. 45051 del 24 novembre 2009, Pres. Pizzuti, Rel. Bruno), ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata - ha osservato la Corte - è correttamente pervenuta alla conclusione che la rappresentazione televisiva avesse carattere obiettivamente diffamatorio vuoi per intrinseco contenuto, correlato all'accostamento dell'omicidio ad inquietanti scenari, vuoi per l'incompletezza dell'informazione; tale ultimo rilievo è stato coerentemente legato alla parzialità della notizia, alla quale non aveva fatto riscontro la necessaria precisazione che le ipotesi coltivate non avevano trovato alcuna conferma, al mancato approfondimento delle stesse ipotesi ed all'omesso rigoroso controllo delle fonti, che avrebbero consentito alla giornalista di prendere atto - e riferire - delle smentite che le stesse avevano aliunde trovato o delle pronunce dell'autorità giudiziaria che, con decisione irrevocabile, ne avevano stigmatizzato l'inconsistenza.  Ulteriore profilo di lesività avrebbe potuto e può ora ravvisarsi - ha affermato la Suprema Corte - nella violazione del diritto dell'oblio, che, peculiare espressione del diritto alla riservatezza - costituzionalmente presidiato in quanto primaria ed indeclinabile esigenza della persona - ha trovato di recente significativi riconoscimenti nella giurisprudenza civile di legittimità. La nozione recepita dal giudice civile è nei termini descrittivi di giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia che in passato era stata legittimamente pubblicata. In siffatta accezione il diritto può avere un riflesso - sia pure indiretto - anche in ambito penale, siccome strettamente correlato al bene giuridico della reputazione, specificamente tutelato dalla norma incriminatrice della diffamazione. Riferire, a distanza di tempo, dello sviluppo di indagini di polizia giudiziaria - ha affermato la Suprema Corte - deve ritenersi consentito in una ricostruzione storica dell'evento, pure a distanza di tempo e persino in chiave di critica all'operato degli inquirenti ed al modo in cui è stata svolta l'inchiesta. Non solo, ma secondo un fatto di costume oggi invalso e, comunemente, accettato, è consentito pure rivisitare in talk show televisivi gravi fatti delittuosi oggetto di indagini e persino di processo, nella ricerca di una verità mediatica in parallelo a quella sostanziale od a quella processuale. Iniziative di siffatto genere - ha osservato la Corte - riscuotono, a quanto pare, apprezzabili indici di gradimento nell'utenza e sembrano inserirsi in un singolare fenomeno mediatico che tende a offrire una realtà immaginifica o virtuale, capace, nondimeno, per forza di persuasione, di sovrapporsi - ove acriticamente recepita dagli utenti - a quella sostanziale o, quanto meno, a collocarsi in un ambito in cui i confini tra immaginario e reale diventano sempre più labili e non facilmente distinguibili. Ma in tali casi - ha affermato la Corte - l'obbligo deontologico del giornalista deve parametrarsi a criteri di rigore ancora maggiore dell'ordinario; non gli è, infatti, consentito, neppure in chiave retrospettiva, riferire di ipotesi investigative o di meri sospetti degli inquirenti (veri o presunti che siano) senza precisare, al tempo stesso, che quelle ipotesi o sospetti sono rimasti privi di riscontro; le ipotesi degli investigatori che non abbiano trovato conforto nelle indagini sono il nulla assoluto, cui deve essere inibita ogni rilevanza esterna in quanto la loro divulgazione, monca del relativo esito, è capace di nuocere alla reputazione ed all'onorabilità delle persone che siano state (ingiustamente) sospettate. Ove esigenze di ricostruzione storica od artistica lo richiedano e permanga - o si riattualizzi - l'interesse pubblico alla relativa propalazione, la notizia deve essere accompagnata dalla doverosa avvertenza che le tesi investigative sono rimaste a livello di mera ipotesi di lavoro in quanto non hanno trovato alcuna conferma o, addirittura, sono state decisamente smentite dallo sviluppo istruttorio. Parimenti - ha affermato la Corte - può essere lecito riferire della qualità di indagato che una persona abbia assunto nell'ambito di una determinata inchiesta penale, ma - ove l'attività di indagine preliminare non abbia portato ad un epilogo tale da consentire il rinvio a giudizio e si sia conclusa con un decreto di archiviazione - il giornalista, che rievochi quella vicenda, è obbligato a darne conto, avendo il dovere giuridico di rendere una informazione completa e di effettuare, all'uopo, tutti i necessari controlli per verificare quale approdo abbia mai avuto quella determinata indagine; alla stessa stregua, egli può riferire di determinate attività investigative, ma è tenuto a comunicarne l'esito, perché dire che una persona è stata perquisita, controllata, o sottoposta a particolari esami (quali, ad esempio, DNA, stub o quant'altro) - nel quadro di un'indagine per gravi fatti delittuosi - senza precisare che quegli accertamenti hanno avuto riscontro negativo significa ledere l'immagine e la reputazione della persona interessata ed il suo diritto all'oblio, come sopra enunciato. Una notizia monca od incompleta - ha affermato la Corte - è capace, infatti, di ledere l'onorabilità dell'interessato e la proiezione sociale della sua personalità; solo la completezza dell'informazione può, infatti, consentire all'utente od al lettore di formarsi un corretto e ponderato giudizio di valore - o, semmai, di disvalore - su una data vicenda o su una determinata persona. Quanto alle asserite fonti giornalistiche genericamente richiamate dagli imputati - ha rilevato la Corte - l'avere acriticamente attinto ad esse od alle agenzie di stampa, senza ogni doverosa attività di verifica, non può giustificarne l'operato neanche a livello putativo.


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