Legge e giustizia: mercoledì 24 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL SUPERIORE GERARCHICO CHE ABBIA DEMANSIONATO UN COLLABORATORE E' TENUTO PERSONALMENTE AL RISARCIMENTO DEI DANNI - In base gli articoli 2043 e 2059 cod. civ. (Cassazione Sezione Terza Civile n. 2352 del 2 febbraio 2010, Pres. Di Nanni, Rel. Petti).

Il dott. E. medico chirurgo, aiuto anziano di ruolo presso la divisione di chirurgia cardiotoracica pediatrica di un ospedale, per disposizioni del primario suo superiore gerarchico è stato escluso, per cinque anni, da ogni attività di sala operatoria o di gestione di reparti. Il primario ha inoltre tenuto nei suoi confronti un comportamento ostile, rivolgendogli addebiti infondati e parole offensive, anche alla presenza di colleghi. Egli ha chiesto al Tribunale di Massa di condannare il primario al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dall'ingiusto trattamento inflittogli, sostenendo tra l'altro che il demansionamento subito aveva avuto ripercussioni negative anche sull'attività professionale svolta privatamente e che nella condotta del primario doveva ravvisarsi altresì il reato di abuso d'ufficio. Il Tribunale ha condannato il primario al risarcimento dei danni patrimoniali in misura di 350 milioni di lire. In grado di appello, la Corte di Genova ha drasticamente ridotto l'importo del risarcimento determinandolo in euro tremila e collegandolo ad un episodio in cui il primario aveva rivolto parole offensive all'aiuto alla presenza di alcuni colleghi. In particolare la Corte, pur dando atto del demansionamento inflitto all'aiuto, ha ritenuto che di esso doveva rispondere l'ospedale datore di lavoro, in base all'art. 2103 cod. civ. che tutela la professionalità del dipendente. L'aiuto ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Genova per vizi di motivazione e violazione di legge e sostenendo che la responsabilità del primario andava affermata, sia per il danno patrimoniale che per quello non patrimoniale, in base alla normativa generale recata dagli articoli 2043 e 2059 cod. civ..

La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 2352 del 2 febbraio 2010, Pres. Di Nanni, Rel. Petti) ha accolto il ricorso. L'attività del professionista - ha osservato la Corte - deve ritenersi protetta dagli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione, in materia di tutela del lavoro, nonché dalla normativa dell'Unione europea, onde la sua lesione comporta un danno ingiusto, anche non patrimoniale, in applicazione dei principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 26972/2008. Pertanto l'accertamento del demansionamento di fatto, per oltre cinque anni, determinato dalle interferenze ostili del primario, costituisce un elemento strutturale sia della lesione di detta posizione soggettiva sia del danno ingiusto inerente al vulnus della prestazione professionale e dell'esercizio effettivo della qualifica di aiuto anziano; danno ingiusto risarcibile quale danno conseguenza, sia nei suoi aspetti patrimoniali che non patrimoniali, ove determini un pregiudizio che incide sia sulla vita professionale e di relazione del professionista danneggiato. Pertanto la Cassazione ha rinviato la causa alla Corte d'Appello di Genova, in diversa composizione, enunciando il seguente principio di diritto: "In una fattispecie di rapporto gerarchico professionale, quale è quello che ricorre tra il primario di un reparto ospedaliero di chirurgia pediatrica e l'aiuto anziano già operante nel reparto, rapporto che integra un contratto sociale dove la posizione del professionista dequalificato è presidiata dai precetti costituzionali (come evidenzia il punto 4.3 in relazione al punto 4.5 del preambolo sistematico della sentenza delle Sezioni Unite n. 26972 del 2008), costituisce fatto colposo che configura illecito civile continuato ed aggravato dal persistere della volontà punitiva e di atti diretti all'emarginazione del professionista, la condotta del primario che nell'esercizio formale dei poteri di controllo e di vigilanza del reparto, estrometta di fatto l'aiuto anziano da ogni attività proficua di collaborazione, impedendogli l'esercizio delle mansioni cui era addetto. Tale condotta altamente lesiva è imputabile al primario, come soggetto agente, ed esprime l'elemento soggettivo della colpa in senso lato, essendo intenzionalmente preordinata alla distruzione della dignità personale e dell'immagine professionale e delle stesse  possibilità di lavoro in ambito professionale, con lesione immediata e diretta dei diritti inviolabili del lavoratore professionista (espressamente richiamati nel citato punto 4.5 delle Sez. Un. citate, cui aggiungiamo, sistematicamente anche gli articoli 1, 3 secondo comma, 4 e 35 primo comma della Costituzione, dovendosi considerare, per il presidio di tutela il lavoratore professionista alla stessa stregua di qualsiasi altro lavoratore e senza discriminazioni). Il danno ingiusto, cagionato direttamente dal primario, con i provvedimenti impeditivi dell'esercizio della normale attività, implica un demansionamento continuato di fatto (malgrado le pronunce amministrative di reintegrazione) e si pone in relazione  causale con il fattore determinante della condotta umana lesiva, posta in essere dal primario. Così stabilita ed accertata, in tutti i suoi elementi, soggettivi ed oggettivi, la fattispecie da sussumere sotto la norma primaria che regola il fatto illecito (art. 2043 cod. civ.) il giudice del rinvio dovrà procedere alla congrua liquidazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali consequenziali, rispettando il principio del risarcimento integrale (punto 4.8 Sez. Un. cit), evitando di compiere duplicazioni (punto 4.9), e considerando, ai fini della liquidazione congrua, la gravità della offesa (rilevante nel caso di specie) e la serietà del pregiudizio (punto 3.11. della Sez. Un. citata). Quanto al ristoro dei danni patrimoniali, dovrà essere considerato il regime professionale vigente all'epoca dei fatti, e comunque la perdita delle chances economiche e di clientela in relazione alla distruzione dell'immagine nella comunità scientifica e nel mercato libero delle prestazioni professionali per la perdita di affidabilità scientifica e curativa".

Una ultima puntualizzazione - ha affermato la Corte - dev'essere posta in relazione alla entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1 dicembre 2009) che recepisce la Carta di Nizza con lo stesso valore del Trattato sulla Unione e per il catalogo completo dei diritti umani. I giudici del rinvio - ha precisato la Cassazione - dovranno ispirarsi anche ai principi di cui all'art. 1 della Carta, che regola il valore della dignità umana (che include anche la dignità professionale) ed all'art. 15 che regola la libertà professionale come diritto inviolabile sotto il valore categoriale della libertà; i fatti dannosi in esame vennero commessi prima della introduzione del nuovo catalogo dei diritti (2000-2001), ma le norme costituzionali nazionali richiamate bene si conformano ai principi di diritto comune europeo, che hanno il pregio di rendere evidenti i valori universali del principio personalistico su cui si fondano gli Stati della Unione; la filonomachia della Corte di Cassazione include anche il processo interpretativo di conformazione dei diritti nazionali e costituzionali ai principi non collidenti ma promozionali del Trattato di Lisbona e della Carta di Nizza che esso pone a fondamento del diritto comune europeo.


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