Legge e giustizia: martedì 23 aprile 2024

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LETTERA AL QUIRINALE SULLA ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DEL D.D.L. N. 1167-B APPROVATO DAL SENATO - Violazione degli articoli 3, 24 e 117 Cost.

Roma, 23 marzo 2010 - I vari profili di illegittimità costituzionale del d.d.l. n. 1167-B approvato dal Senato e sottoposto alla firma del Presidente della Repubblica sono stati evidenziati in una lettera inviata dal direttore di Legge e Giustizia in data 15 marzo 2010 al dott. Salvatore Sechi, titolare dell'Ufficio per gli Affari Giuridici.

Pubblichiamo il testo integrale della lettera:

Il d.d.l. n. 1167-B ha dato luogo a giusti rilievi soprattutto nella parte che, in contrasto con fondamentali garanzie costituzionali, introduce la possibilità di indurre i lavoratori ad accettare clausole compromissorie e di ridurre le possibilità di intervento del giudice del lavoro.

Altri profili, non meno preoccupanti, di illegittimità costituzionale sono peraltro ravvisabili in alcune norme dirette a indebolire le tutele dei lavoratori precari, introducendo limitazioni e decadenze che non trovano riscontro nella generale disciplina dei contratti.

E' ravvisabile in particolare il tentativo di reintrodurre almeno parzialmente le previsioni del decreto legge 25.6.2008, n. 112, dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 214 del 14.7.2009.

In materia il disegno di legge n. 1167-B stabilisce, all'art. 34, tra l'altro, che "Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604". E' previsto inoltre che questa diposizione trovi applicazione per tutti i giudizi, anche quelli in corso.

Le principali differenze del disegno di legge 1167-B rispetto alla normativa dichiarata incostituzionale stanno nel fatto che la disciplina prevista dal nuovo provvedimento non è limitata ai giudizi in corso e fa un espresso riferimento alla "conversione del contratto a tempo determinato", che riconosce il potere del Giudice di accertare in caso di nullità del termine, l'esistenza di un rapporto di lavoro indeterminato.

Ciò dovrebbe indurre a ritenere che la previsione, nel disegno di legge, di un'indennità (da 2,5 a 12 mensilità) sia unicamente diretta a limitare l'entità del risarcimento, che usualmente viene liquidato dal Giudice per la perdita della retribuzione nel periodo successivo alla illegittima cessazione del rapporto, sino alla pronuncia della condanna alla riammissione del lavoratore in servizio. Attualmente, nel caso che la sentenza venga pronunciata due-tre anni dopo la cessazione di fatto del rapporto, per scadenza del termine illegittimo, il lavoratore, ove abbia offerto la prestazione, ha diritto a un risarcimento commisurato all'intera retribuzione perduta. Si deve ritenere che in base alla normativa recata dal disegno di legge n. 1167-B, fermo restando il diritto alla riammissione in servizio, l'indennità non possa eccedere le 12 mensilità. A questa conclusione, che farebbe salvo il diritto alla stabilizzazione del rapporto di lavoro, conduce anche l'assenza, nel nuovo testo, dell'avverbio "unicamente" presente nella norma dichiarata incostituzionale e riferito alla portata esaustiva della tutela indennitaria.

Ma gli studi legali che normalmente difendono le aziende stanno affilando le armi per sostenere, una volta entrata in vigore la nuova legge, che essa in realtà sostituisce la tutela indennitaria a quella reintegratoria, precludendo così al lavoratore il diritto di ottenere la stabilizzazione, che è il principale obiettivo delle controversie in materia.

Non v'è dubbio che, se la tesi datoriale fosse ritenuta attendibile, la questione dovrebbe tornare all'esame della Corte Costituzionale sotto vari profili, tra cui la violazione dell'art. 3 Cost. per l'evidente disparità tra le conseguenze generalmente riconducibili alla dichiarazione di nullità di una clausola contrattuale e quelle previste per i soli lavoratori precari, che quindi avrebbero una tutela giuridica inferiore a quella consentita dall'ordinamento agli altri cittadini in situazione analoga.

In ogni caso la limitazione del risarcimento dovuto al lavoratore con l'introduzione di un limite massimo di 12 mensilità, anche quando l'importo della retribuzione perduta sia superiore, introdurrebbe per i precari una disparità di trattamento rispetto agli altri cittadini, per i quali l'ordinamento non prevede limiti al risarcimento del danno ottenibile nel caso che subiscano un'inadempienza contrattuale.

Altra evidente disparità viene creata dall'art. 34 del disegno di legge, secondo cui la nullità del termine deve essere impugnata stragiudizialmente entro 60 giorni dalla scadenza e la relativa azione giudiziaria deve essere proposta nel successivo termine di 180 giorni.

Tali limitazioni invero non esistono nella disciplina generale dei contratti.

Esse inoltre non potranno essere rispettate dal lavoratore precario, che si trova in stato di soggezione psicologica in quanto, scaduto il termine del contratto egli è ovviamente portato a non contrariare il datore di lavoro nella speranza di una nuova assunzione.

E' pertanto evidente la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nonché dell'art. 117 Cost. che impone di rispettare la normativa europea, secondo cui in materia di lavoro precario non è possibile un peggioramento delle tutele (clausola di non regresso recata dalla direttiva 1999/70/CE).


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