Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

LA DEQUALIFICAZIONE E' LECITA SE ATTUATA PER EVITARE IL LICENZIAMENTO - Ed accettata dal lavoratore (Cassazione Sezione Lavoro n. 23926 del 25 novembre 2010, Pres. Roselli, Rel. Picone).

Virgilio T., dipendente della S.p.A. Editoriale Friuli Venezia Giulia come impiegato di alto livello addetto all'ufficio grafici, al rientro in azienda dopo un periodo di cassa integrazione è stato destinato, in base a un accordo sindacale, ai servizi generali con mansioni di fattorino e centralinista. Dopo un periodo di adibizione a tali mansioni, nettamente inferiori a quelle in precedenza svolte, egli ha chiesto al Tribunale di Trieste di condannare l'azienda al risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Sia il Tribunale che, in grado di appello, la Corte di Trieste hanno ritenuto la domanda priva di fondamento, rilevando che il demansionamento doveva ritenersi giustificato dall'esigenza di conservare il posto di lavoro, dopo la soppressione del servizio grafico ed era stato attuato in base ad un accordo sindacale, accettato dal lavoratore. Virgilio T. ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Trieste per vizi di motivazione e violazione di legge. In particolare egli ha sostenuto che l'accordo sindacale diretto a consentire il rientro anticipato dalla Cigs con assegnazione di mansioni inferiori non poteva disporre dei diritti dei singoli lavoratori, tutelati dall'art. 2103 cod. civ..

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 23926 del 25 novembre 2010, Pres. Roselli, Rel. Picone) ha rigettato il ricorso. Le deduzioni del ricorrente - ha osservato la Corte - sono esatte nella parte in cui sostengono che la nullità di patti contrari al divieto di declassamento di mansioni, previsto dal capoverso dell'art. 2103 cod. civ., si applica anche alla contrattazione collettiva, come si desume, in positivo, dal dettato normativo dell'art. 40 della legge n. 300 del 1970, che fa salve le condizioni dei contratti collettivi e degli accordi sindacali solo se più favorevoli ai lavoratori, nonché, "a contrario", da altre disposizioni con cui, eccezionalmente, il legislatore ha autorizzato la contrattazione collettiva ad introdurre una disciplina in deroga al disposto del comma primo dell'art. 2103 c.c., quale l'art. 4, comma 11, della legge n. 223 del 1991, secondo cui "gli accordi sindacali stipulati nel corso delle procedure di cui al presente articolo, che prevedano il riassorbimento totale o parziale dei lavoratori ritenuti eccedenti, possono stabilire, anche in deroga al comma secondo dell'art. 2103 c.c., la loro assegnazione a mansioni diverse da quelle svolte". Tuttavia - ha ricordato la Corte - la giurisprudenza di legittimità è ormai definitivamente orientata nel senso che l'impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo oggettivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (art. 1 e 3 L. n. 604 del 1966 e art. 1463 e 1464 cod. civ.) non è ravvisabile per effetto della sola ineseguibilità dell'attività attualmente svolta dal prestatore di lavoro, perché può essere esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile - alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni anche inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore. Si è anche precisato che il cosiddetto patto di dequalificazione, quale unico mezzo per conservare il rapporto di lavoro, costituisce non già una deroga all'art. 2103 cod. civ., norma diretta alla regolamentazione dello "jus variandi" del datore di lavoro e, come tale, inderogabile secondo l'espresso disposto del comma secondo delle stesso articolo, bensì un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto, sorretto dal consenso e dall'interesse del lavoratore; pertanto, la validità del patto presuppone l'impossibilità sopravvenuta di assegnare mansioni equivalenti alle ultime esercitate e la manifestazione - sia pure in forma tacita - della disponibilità del lavoratore ad accettarle. La sentenza impugnata - ha affermato la Corte - non si è discostata dai richiamati principi ed ha fondato la decisione sopra accertamenti di fatto correttamente eseguiti o comunque non contestati dal ricorrente; in primo luogo, la sentenza menziona l'accordo sindacale avente ad oggetto la possibile assegnazione a mansioni di livello inferiore, ma non lo considera fonte del patto in deroga; l'impossibilità di adibire Virgilio T. alle stesse mansioni o ad altre equivalenti viene espressamente esclusa dal giudice del merito, che ritiene la dequalificazione unica alternativa al licenziamento senza che sul punto vi siano censure del ricorrente; la disponibilità del dipendente alla continuazione del rapporto di lavoro è stata desunta dalla mancata reazione immediata al trasferimento ai servizi generali, con assegnazione a mansioni inferiori.


© 2007 www.legge-e-giustizia.it