Giuseppe D. dipendente della S.r.l. Villa Ardeatina, ha totalizzato, in un quadriennio, 753 giorni di assenza per malattia, superando di sette mesi il periodo di comporto stabilito dal contratto collettivo in 18 mesi. Rientrato in servizio, egli ha lavorato per 19 giorni prima di ricevere la comunicazione di licenziamento per superamento del periodo di comporto. Egli ha chiesto al Tribunale di Roma di annullare il licenziamento per la sua tardività. Il Tribunale ha accolto la domanda ordinando la reintegrazione di Giuseppe D. nel posto di lavoro. Questa decisione è stata integralmente riformata, in grado di appello, dalla Corte di Roma che ha escluso che il ritardo nell'intimare il licenziamento potesse intendersi come rinuncia al diritto di por termine al rapporto per superamento del periodo di comporto. Gli eredi del lavoratore, nel frattempo deceduto, hanno proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte romana per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 24899 del 25 novembre 2011, Pres. Di Cerbo, Rel. Manna) ha rigettato il ricorso, affermando il seguente principio di diritto: "Ferma restando la facoltà dell'imprenditore di intimare il licenziamento non appena il lavoratore abbia esaurito il periodo di comporto per malattia e, quindi, anche prima del suo rientro in servizio, nondimeno il datore di lavoro ha altresì facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all'interno del - se del caso mutato - assetto organizzativo dell'azienda; per l'effetto, solo a partire dal rientro in servizio del lavoratore l'eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente." Il concetto di tempestività del recesso rilevante in tema di comporto - ha osservato la Corte - è diverso da quello proprio del licenziamento disciplinare: in questo, la tempestività della reazione datoriale - in termini di contestazione dell'addebito e, se del caso, di conseguente recesso - è dovuta nel rispetto del diritto di difesa del lavoratore; in quello è, invece, finalizzata ad evitare che il lavoratore resti in una sorta di limbo, senza sapere se e a quali condizioni potrà proseguire il proprio rapporto, situazione di incertezza che si tradurrebbe in una pratica impossibilità di esercitare i diritti connessi al rapporto lavorativo per timore che la controparte reagisca in modo ritorsivo, strumentalmente "rispolverando" un giustificato motivo oggettivo non ancora fatto valere. Il diritto del dipendente di conoscere con certezza la sorte del proprio rapporto - ha rilevato la Corte - si realizza proprio attraverso la valorizzazione dell'affidamento in lui ingenerato dall'inerzia del datore di lavoro che, pur potendo recedere, abbia tuttavia proseguito nell'accettare la prestazione lavorativa; a sua volta, in tanto può parlarsi di affidamento del lavoratore circa la rinuncia datoriale ad avvalersi del giustificato motivo oggettivo (per superamento del periodo di comporto) in quanto il datore di lavoro abbia potuto in concreto sperimentare la ripresa dell'altrui prestazione e decidere con cognizione di causa se licenziare o non il proprio dipendente. In altre parole - ha affermato la Corte - fino a quando il lavoratore non sia rientrato in servizio la pura e semplice inerzia dell'imprenditore è ancora un contegno neutro, di per sé non significativo della volontà di rinunciare alla facoltà di recesso e, quindi, inidoneo a determinare l'altrui incolpevole affidamento; infatti, l'attesa può dipendere dall'esigenza di accertare in concreto se, una volta tornato al lavoro il dipendente (che abbia esaurito il comporto), permangano spazi di suo concreto utilizzo, ancor più se si considera che all'esito di un lungo periodo di malattia gli assetti organizzativi dell'azienda possono essersi nel frattempo modificati e richiedere, quindi, una più puntuale e pratica verifica della possibilità di mantenere in vita il rapporto. Dunque - ha concluso la Corte - fermo restando il diritto dell'imprenditore di intimare il licenziamento non appena risulti esaurito il periodo di comporto da parte del lavoratore, prima dell'eventuale suo rientro in servizio il contegno datoriale (ove consistito nel puro e semplice astenersi dall'adottare provvedimenti espulsivi) non è ancora sussumibile sub specie di condotta in sé significativa, tale da poter astrattamente ingenerare l'altrui incolpevole affidamento circa l'eventuale rinuncia a risolvere il rapporto.
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