Legge e giustizia: sabato 20 aprile 2024

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LA GIURISPRUDENZA IN MATERIA DI DIRITTO DEL LAVORO E PREVIDENZIALE SEGNALATA DALLA RELAZIONE DEL PRIMO PRESIDENTE DELLA CASSAZIONE - Per l'anno 2011.

La relazione del Primo Presidente della Suprema Corte sull'Amministrazione della Giustizia nell'anno 2011 reca in allegato un'ampia rassegna di giurisprudenza civile e penale. Ne riproduciamo la parte relativa al diritto del lavoro e previdenziale.

Retribuzione e inquadramento del pubblico dipendente - In tema di retribuzione, e con riferimento al lavoro pubblico contrattualizzato, deve segnalarsi la sentenza delle Sezioni Unite n. 3814 del 16 febbraio 2011, che ha affermato che, in caso di reggenza del pubblico ufficio sprovvisto temporaneamente del dirigente titolare, vanno incluse, nel trattamento differenziale per lo svolgimento delle mansioni superiori, la retribuzione di posizione e quella di risultato. Anche sul tema dell'inquadramento del lavoratore, nell'ambito del rapporto di lavoro pubblico, sono intervenute le Sezioni Unite, con la sentenza Cass. sez. un. n. 503 del 12 gennaio 2011, secondo la quale, con riferimento al trasferimento del lavoratore dipendente dell'Ente Poste Italiane all'INPDAP, presso il quale si trovava già in posizione di comando, verificandosi solo un fenomeno di modificazione soggettiva del rapporto medesimo assimilabile alla cessione del contratto, compete all'ente di destinazione l'esatto inquadramento e la concreta disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti trasferiti, senza che su tali profili possa operare autoritativamente la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Lavoro part-time - Con riferimento al c.d. lavoro part-time, Cass., sez. lav., n. 15774 del 19 luglio 2011 ha riaffermato il principio secondo il quale, nel rapporto di lavoro a tempo parziale, l'osservanza di un orario lavorativo pari a quello previsto per il tempo pieno è idonea a comportare, nonostante la difforme iniziale volontà delle parti, l'automatica trasformazione del rapporto part-time in altro a tempo pieno, non occorrendo, a tal fine, l'osservanza di alcun requisito formale.

La problematica ha interessato anche il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche Amministrazioni. Cass., sez. lav., n. 18948 del 16 settembre 2011 ha così precisato che, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il rapporto di lavoro part-time non può essere costituito con prestazione lavorativa superiore al cinquanta per cento di quella a tempo pieno.

Danno da demansionamento - Con riferimento alla problematica della responsabilità datoriale ai sensi dell'art. 2087 cod. civ., Cass., sez. lav., sentenza n. 5237 del 4 marzo 2011 si è occupata del danno da demansionamento professionale, affermando che la risarcibilità del danno all'immagine, derivato al lavoratore a cagione del comportamento del datore di lavoro che lo abbia demansionato, presuppone che la lesione dell'interesse sia grave, nel senso che l'offesa superi una soglia minima di tollerabilità, e che il danno non sia futile, vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi.

Danno alla salute - Come precisato da Cass., sez. lav., n. 7272 del 30 marzo 2011, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute patito dal lavoratore in conseguenza della mancata adozione da parte del datore di adeguate misure di sicurezza delle condizioni di lavoro, ai sensi dall'art. 2087 cod. civ., decorre dal momento in cui il danno esso si sia manifestato, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile solo ove l'illecito sia istantaneo, ossia si esaurisca in un tempo definito, ancorché abbia effetti permanenti, mentre ove l'illecito sia permanente, e si sia perciò protratto nel tempo, il termine prescrizionale inizia a decorrere dal momento della definitiva cessazione della condotta inadempiente.

Sul tema, merita di essere segnalata anche la sentenza Cass., sez. lav., n. 1072 del 18 gennaio 2011, la quale ha puntualizzato che, in caso di lesione dell'integrità fìsica, conseguente ad un infortunio sul lavoro, che abbia portato, a breve distanza di tempo, ad esito letale, è configurabile un danno biologico di natura psichica subito dalla vittima, la quale abbia percepito lucidamente l'approssimarsi della morte, reclamabile dai suoi eredi, e la cui entità dipende non già dalla durata dell'intervallo tra la lesione e la morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata.

Trasferimento di ruolo - Va ancora menzionato un ultimo pronunciamento della Corte sull'annosa problematica dell'inquadramento e del riconoscimento dell'anzianità relativa al personale scolastico amministrativo, tecnico ed ausiliario (A.T.A.). Cass., sez. lav., n. 20980 del 12 ottobre 2011 ha, invero, affermato che, in tema dì personale degli enti locali trasferito nel ruolo del personale ATA dello Stato, il legislatore - come precisato dalla Corte di giustizia dell'Unione Europea con la sentenza 6 settembre 2011 -è tenuto ad attenersi allo scopo della direttiva 77/187/CEE consistente "nell'impedire che i lavoratori coinvolti in un trasferimento siano collocati in una posizione meno favorevole per il solo fatto del trasferimento". Ne consegue che il giudice deve a valutare - ai fini dell'esercizio del potere-dovere di dare immediata attuazione alle norme dell'Unione Europea - se, all'atto del trasferimento, si sia verificato un peggioramento della condizione retributiva globalmente attribuita al lavoratore rispetto a quella goduta immediatamente prima del trasferimento stesso e, dunque, secondo un apprezzamento non limitato ad uno specifico istituto, ma considerando anche eventuali trattamenti più favorevoli su altri istituti ed eventuali effetti negativi sul trattamento di fine rapporto e sulla posizione previdenziale, senza che assumano rilievo, invece, eventuali disparità con i lavoratori che, a tale data, erano già in servizio presso il cessionario.

Doppia contribuzione - In materia di previdenza, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 17076 dell'8 agosto 2011, hanno affrontato nuovamente, dopo il precedente intervento del 2010, in ragione del sopravvenire della norma di interpretazione autentica, di cui all'art. 12, comma 11, del d.l. n. 78 del 2010, convertito, nella legge n. 122 del 2010, la controversa questione dell'esistenza di un obbligo di doppia contribuzione, e di correlata iscrizione assicurativa, per lo svolgimento di attività autonome. Al riguardo, le Sezioni Unite hanno riconosciuto alla norma sopravvenuta carattere di effettiva interpretazione autentica della disposizione prevista dall'art. 1, comma 208, legge n. 662 del 1996, escludendo, pertanto, nella indicata fattispecie, l'operatività dell'unificazione della contribuzione sulla base del parametro dell'attività prevalente.

In tema, invece, di sgravi contributivi la Corte - con sentenza Cass., sez. lav., n. 8069 dell'8 aprile 2011 - ha stabilito che, ai fini della concessione degli sgravi di cui agli artt. 8, secondo e quarto comma, della legge 23 luglio 1991, n. 223 ed in relazione alla novità dell'impresa, deve rinvenirsi un'azienda effettivamente nuova, avendosi riguardo al concetto di azienda in senso oggettivo, senza che possano assumere rilievo tutte le eventuali variazioni intervenute nella titolarità dell'impresa, come nelle ipotesi di trasferimento, trasformazione о fusione di aziende, in cui si verifichi il mero passaggio di personale alla nuova impresa senza un effettivo incremento dei lavoratori occupati.

Cass., sez. lav., ordinanza n. 14307 del 14 giugno 2011 è poi intervenuta in materia di contributi assicurativi, sollevando la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., dell'art. 20, comma 1, ultimo inciso, del d.l. n. 112 del 2008, convertito nella legge n. 133 del 2008, nella parte in cui tale norma ha previsto l'irripetibilità della contribuzione per malattia versata dai datori di lavoro anteriormente all'entrata in vigore della nuova normativa, atteso che, con questo intervento, il legislatore ha, in via di interpretazione autentica, soppresso l'obbligo contributivo a carico dei datori di lavoro, "sanando" definitivamente le pregresse posizioni irregolari, ma senza consentire la ripetizione delle somme già versate da parte di coloro che avevano regolarmente adempiuto, la cui posizione appare irrazionalmente penalizzata rispetto ai primi che, invece, erano rimasti inadempienti all'obbligo di legge.

Incentivi all'esodo - Nelle relazioni inerenti al ruolo della contrattazione collettiva e del sindacato, con la sentenza Cass. sez. un., n. 17079 dell'8 agosto 2011 è stato affrontato il tema degli incentivi per l'esodo anticipato dal lavoro. Secondo questa sentenza, l'accordo collettivo che, mediante la previsione della misura "al netto" di trattamenti incentivanti la risoluzione anticipata dei rapporti di lavoro (destinati a sopperire per un certo periodo alla mancanza della normale retribuzione о della pensione), compensi la diversità di disciplina fiscale correlata all'età del lavoratore al momento dell'esodo, non si pone in contrasto con l'art. 3 Cost., atteso che, nell'ambito dei rapporti di lavoro di diritto privato, la disciplina contrattuale non è vincolata dal principio di parità di trattamento. Tale pattuizione, inoltre, è ammissibile, trovando giustificazione nell'interesse alla menzionalità ed economicità dell'impresa, nell'intento di favorire un più consistente esodo di lavoratori e, nell'interesse generale dei lavoratori, in quello di assicurare un trattamento economico adeguato per tutti gli interessati, senza che esso si ponga in contraddizione con la disciplina sulla misura degli oneri fiscali a carico dei lavoratori e sulle modalità della loro riscossione mediante ritenute alla fonte da parte del datore di lavoro.

Trattenute sindacali - Sotto altro versante, la Suprema Corte (Cass., sez. lav., n. 9049 del 20 aprile 2011) ha ribadito che, in tema di trattenute sindacali, il referendum del 1995, abrogativo del secondo comma dell'art. 26 dello statuto dei lavoratori, e il susseguente d.P.R. n. 313 del 1995 non hanno determinato un divieto di riscossione di quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro, essendo soltanto venuto meno il relativo obbligo, sicché i lavoratori, nell'esercizio della autonomia privata e mediante la cessione del credito in favore del sindacato, possono chiedere al datore di lavoro medesimo di trattenere sulla retribuzione i contributi sindacali da accreditare al sindacato. Ciò, peraltro, non esclude che il datore di lavoro possa affermare che la cessione comporti in concreto, a suo carico, un onere aggiuntivo insostenibile in rapporto all'organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex artt. 1374 e 1375 cod. civ., ma, a tal proposito, egli deve provarne l'esistenza, dovendosi escludere, atteso il carattere di proporzionalità insito in tale valutazione, che possa ritenersi provata la suddetta eccessiva gravosità solamente in ragione dell'elevato numero dì dipendenti dell'azienda, la cui esclusiva considerazione comporterebbe l'iniquo risultato di ritenere soggette all'onere di operare le ritenute sindacali richieste dai lavoratori le imprese di medie e piccole dimensioni e di escludere quelle più grandi.

Diritto di sciopero - Circa i limiti inerenti l'esercizio del diritto di sciopero e la legittimazione delle associazioni sindacali, Cass., sez. lav., n. 16787 del 29 luglio 2011 ha ribadito che, ai fini del promovimento dell'azione prevista dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori, per "associazioni sindacali nazionali" devono intendersi le associazioni che abbiano una struttura organizzativa articolata a livello nazionale e che svolgano attività sindacale su tutto о su ampia parte del territorio nazionale, mentre non è necessaria la sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali.

Cass., sez. lav., n. 9714 del 3 maggio 2011, giudicando della condotta di sciopero delle mansioni, mantenuta da un dipendente in adesione ad un'astensione collettiva, ha negato che potesse invocarsi la rilevanza scriminante del putativo esercizio del diritto di sciopero, essendo comunque mancata ogni forma di cooperazione, e ciò in applicazione del principio per cui, in tema di obbligazioni, lo stato soggettivo di buona fede non è idoneo, di per sé, ad escludere l'imputabilità dell'inadempimento, incombendo sul debitore, a tal fine, l'onere di provare che l'inadempimento о il suo ritardo siano stati determinati da impossibilità della prestazione derivata da causa oggettivamente non imputabile allo stesso, nel cui ambito è riconducibile, appunto, l'impegno di cooperazione alla realizzazione dell'interesse della controparte a cui l'obbligato è tenuto.

Interpretazione dei contratti collettivi - Sugli aspetti correlati al ricorso immediato proposto ai sensi dell'art. 420 bis cod. proc. civ., avente ad oggetto l'interpretazione in funzione nomofilattica dei contratti collettivi, la Corte, con la sentenza Cass., sez. lav., n. 3602 del 14 febbraio 2011, ha precisato come non basti che nel processo si ponga una questione di interpretazione di una clausola di un contratto collettivo nazionale, essendo, piuttosto, necessario che si sia scelto di discutere e decidere tale questione in via pregiudiziale, con la conseguenza che, se la pronuncia sia intervenuta sul merito della controversia e il giudice abbia deciso con una sentenza di accertamento non della sola interpretazione del contratto collettivo, bensì della sussistenza del diritto dei ricorrenti e di condanna della convenuta, sebbene generica, la situazione processuale va oltre il limite segnato dal citato articolo e la sentenza emessa deve essere impugnata in appello, e non con il ricorso immediato per cassazione.

Licenziamento collettivo - Venendo alle pronunce della Suprema Corte sulle problematiche connesse alla risoluzione del rapporto di lavoro, con la sentenza n. 24566 del 22 novembre 2011, la Cassazione ha innanzitutto ribadito il principio che, dopo l'entrata in vigore della legge n. 223 del 1991, il licenziamento collettivo costituisce un istituto autonomo, che si caratterizza per la presenza di requisiti quantitativi e spaziali e per la finalizzazione della procedura, attraverso il controllo preventivo di soggetti pubblici e collettivi, in funzione di un equilibrato contemperamento tra le esigenze di tutela dell'occupazione e quelle dell'impresa di dimensionare la propria struttura aziendale in termini compatibili con le necessità della crescita e della sopravvivenza.

Al riguardo, il criterio di scelta adottato nell'accordo sindacale tra datore di lavoro e organizzazioni sindacali può anche essere unico e consistere nella vicinanza al pensionamento, in quanto esso permette di formare una graduatoria rigida e può essere applicato e controllato senza alcun margine di discrezionalità da parte del datore di lavoro. Ove, peraltro, sia stato individuato, quale unico criterio, quello della vicinanza al pensionamento e lo stesso, applicato nella realtà, si riveli insufficiente a individuare i dipendenti da licenziare, esso diviene automaticamente illegittimo, se non combinato con un altro criterio di selezione interna [Cass., sez. lav., n. 1938 del 27 gennaio 2011].

Ai fini della reintegra, non può considerarsi ostativa la chiusura dello stabilimento aziendale cui sono addetti i lavoratori licenziati, restando possibile il trasferimento degli stessi ad altre unità produttive, ove il datore di lavoro non abbia specificato, nella comunicazione ex art. 4 della legge n. 223 del 1991, le ragioni per cui i lavoratori, in relazione alla loro professionalità, non possano essere utilizzati in altri reparti dell'azienda (Cass., sez. lav., n. 3597 del 14 febbraio 2011).

Giusta causa di licenziamento - In tema di licenziamento per giusta causa, la Corte di Cassazione ha ulteriormente precisato - Cass., sez. lav., sentenza n. 5095 del 2 marzo 2011 - la portata della clausola generale e l'attività che compete al giudice di merito e di legittimità, stabilendo che la giusta causa di licenziamento, quale fatto "che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto", è una nozione che la legge configura con una disposizione di limitato contenuto, delineante un modulo generico, da specificare in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama.

In questa prospettiva, si è pertanto precisato - Cass., sez. lav., n. 17092 del 8 agosto 2011 - che, per valutare se la compromissione della fiducia, necessaria ai fini della permanenza del rapporto di lavoro, costituisca giusta causa di licenziamento, va tenuto presente che è differenziata l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono, e che il fatto concreto va valutato nella sua portata oggettiva e soggettiva.

Libertà fondamentali - In termini più complessi, è stata oggetto di analisi anche la relazione tra il recesso del datore di lavoro a fronte di comportamenti del lavoratore ricondotti о riconducibili all'esercizio di diritti о libertà fondamentali. Le Sezioni Unite, intervenute sulla questione (Cass., sez. un., n. 5924 del 14 marzo 2011), hanno affermato che il rifiuto del lavoratore allo svolgimento della prestazione lavorativa a cui è tenuto, a fronte di inadempimenti del datore di lavoro lesivi di diritti fondamentali, sia consentito ove venga in rilievo un diritto proprio del lavoratore od altrui, purché, nel primo caso, il comportamento del prestatore sia idoneo ed adeguato ad impedire la lesione -non altrimenti evitabile, ovvero evitabile in modo eccessivamente oneroso - del diritto oggettivamente minacciato e, nel secondo, la minaccia, avente ad oggetto un'offesa ingiusta, abbia i caratteri della concretezza e dell'attualità e il titolare del diritto inviolabile non abbia prestato, nei limiti della disponibilità del diritto, il proprio libero e legittimo consenso, anche in via implicita, a tale situazione.

Anche in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo la Suprema Corte - Cass., sez. lav., n. 17093 del 8 agosto 2011 - ha curato di precisare la valenza della clausola generale prevista dalla legge e i conseguenti compiti e limiti dell'attività del giudice di merito che, nell'esprimere il giudizio di valore necessario ad integrare la norma elastica da cui si desume la suddetta nozione, compie un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, per cui dà concretezza a quella parte mobile di essa, che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale.

Licenziamento individuale per ragioni organizzative - Il lavoratore ha diritto a che il datore di lavoro dimostri la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo e non ad un mero incremento di profitti e che dimostri, inoltre, l'impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione aziendale: tale onere - come precisato da Cass., sez. lav., n. 6625 del 23 marzo 2011 - non può essere considerato assolto con la prova di aver proposto al dipendente un'attività di natura non subordinata, ma autonoma, esterna all'azienda e priva di qualsiasi garanzia reale in termini di flusso di lavoro e di reddito, fermo restando, peraltro, che, nell'accertamento di un possibile "repechage", è comunque esigibile - Cass., sez. lav., n. 3040 del 8 febbraio 2011 - una collaborazione del lavoratore mediante l'allegazione dell'esistenza di altri posti di lavoro interni all'azienda nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato (da cui l'ulteriore correlato onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità in detti posti).

Contratti a termine - Nel particolare ambito della materia dei contratti a termine, si è precisato che, in un giudizio instaurato per il riconoscimento di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell'illegittima apposizione di un termine a numerosi contratti intervallati da periodi di inattività, perché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo dissenso, é necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, con la precisazione che, a tal fine, non è sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, né l'accettazione del trattamento di fine rapporto e la mancata offerta della prestazione, né la mera ricerca di occupazione a seguito della perdita del lavoro per causa diversa dalle dimissioni, gravando sul datore di lavoro l'onere della prova delle circostanze che possano dar luogo a tale vicenda estintiva (Cass., sez. 6 - lav., n. 16932 del 4 agosto 2011 e Cass., sez. 6 - lav., n. 16287 del 26 luglio 2011).


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