Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

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IL POTERE DI AUTOTUTELA DELL'AMMINISTRAZIONE NON PUO' PREVALERE SUI DIRITTI SORTI PER IL DIPENDENTE NELL'AMBITO DEL RAPPORTO DI PUBBLICO IMPIEGO PRIVATIZZATO - Le obbligazioni vanno rispettate (Cassazione Sezione Lavoro n. 240 del 12 gennaio 2012, Pres. Vidiri, Rel. Meliadò).

Ove il datore di lavoro abbia manifestato la volontà di provvedere alla copertura di posti di una determinata qualifica attraverso il sistema del concorso interno ed abbia, a questo fine, pubblicato un bando che contenga tutti gli elementi essenziali (numero dei posti disponibili, qualifica, modalità del concorso, criteri di valutazione dei titoli ecc), prevedendo, altresì, il riconoscimento del diritto del vincitore del concorso di ricoprire la posizione di lavoro disponibile e la data a decorrere dalla quale è destinata ad operare giuridicamente l'attribuzione della nuova posizione, sono rinvenibili in un siffatto comportamento gli estremi della offerta al pubblico, che impegna il datore di lavoro non solo al rispetto della norma con la quale esso stesso ha delimitato la propria discrezionalità, ma anche ad adempiere l'obbligazione secondo correttezza e buona fede. Sicché il superamento del concorso, indipendentemente dalla successiva nomina, consolida nel patrimonio dell'interessato l'acquisizione di una situazione giuridica individuale, non disconoscibile alla stregua della natura del bando, né espropriabile per effetto di diversa successiva disposizione generale, in virtù del disposto dell'art. 2077, secondo comma c.c. Tale principio di diritto, risulta, del resto, pienamente coerente con la posizione che il datore di lavoro pubblico riveste nell'ambito del pubblico impiego c.d. privatizzato e con la conseguente natura delle situazioni soggettive tutelabili che fanno capo ai dipendenti. E' priva di fondamento la tesi per cui il principio dell'immodificabilità del bando deve ritenersi "recessivo" rispetto all'esigenza di buon andamento amministrativo e di perseguimento del superiore interesse pubblico. Essa non considera, infatti, che, a seguito della riforma, la pubblica amministrazione non esercita più, nel rapporto di pubblico impiego, poteri di supremazia speciale, ma opera con la capacità del datore di lavoro privato e nell'ambito di un rapporto contrattuale paritario, e che, non configurandosi in capo ai dipendenti situazioni di interesse legittimo di diritto pubblico, la posizione degli stessi (integralmente riportabile alla categoria dei diritti soggettivi o, a fronte di specifici poteri discrezionali, degli interessi legittimi di diritto privato, pur sempre, comunque, riconducibili alla categoria dei diritti di cui all'art. 2907 cod. civ.: cfr. S.U. n. 14625/2003; Cass. n. 3880/2006) non è degradabile per effetto di atti unilaterali del datore di lavoro, come per l'innanzi avveniva, allorché la tutela del lavoratore pubblico era riconducibile (ed era connessa) all'esercizio del potere amministrativo pubblico.

In tal contesto, quindi, la persistente rilevanza che assume l'interesse generale rispetto al datore di lavoro pubblico (dal momento che la privatizzazione del rapporto di impiego non ha certo determinato la privatizzazione della pubblica amministrazione, né delle sue finalità generali, alla luce dei principi di buon andamento ed imparzialità costituzionalmente rilevanti) non determina e non si risolve, nella funzionalizzazione dei singoli atti, quanto dell'attività complessiva della stessa, di guisa che i singoli atti di gestione o di organizzazione (per la parte questi ultimi che si collocano al di sotto dell'"alta organizzazione", mantenuta in regime pubblicistico) non sono sindacabili per contrasto col pubblico interesse, come i provvedimenti amministrativi, ma nei limiti consentiti dal programma negoziale e dalle relative fonti - legali e contrattuali - di riferimento (e quindi, non alla stregua dei tradizionali vizi dell'atto amministrativo, ma secondo quelli propri della patologia dei negozi giuridici, derivanti dalla violazione della disciplina legale o contrattuale che presiede all'attività paritetica della pubblica amministrazione). Il che implica, fra l'altro, che al di fuori dei casi in cui viene eccezionalmente riconosciuto al datore di lavoro, pubblico o privato, il potere di incidere unilateralmente sul vincolo contrattuale (come nei casi di esercizio del potere disciplinare o di legittimo esercizio dello jus variandi), non risulta configurabile un potere di autotutela della pubblica amministrazione, che costituiva in precedenza espressione delle prerogative unilaterali di cui la stessa era titolare nella regolamentazione del rapporto di impiego, e, più in generale, che la specialità del rapporto non è riferibile (come era nel testo originario della riforma) al "perseguimento di interessi generali", ma alle singole disposizioni (essenzialmente concernenti le modalità dell'assunzione, l'irrilevanza dei fatti concludenti e l'obbligo di assicurare "parità di trattamento" per i dipendenti) che determinano una regolamentazione specifica per il pubblico impiego.

In tal contesto, i poteri discrezionali o valutativi che sono riconosciuti al datore di lavoro pubblico (anche in tema di procedura di avanzamento in carriera) si collocano sempre, come nel lavoro privato, sul piano del regime di diritto comune, e costituiscono espressione di "potere privato", e non anche di discrezionalità amministrativa, risultando censurabili in conformità alle disposizioni di legge e di contratto, e comunque sulla base delle regole di correttezza e buona fede (in quanto espressive dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost.) ed in conformità a criteri di adeguatezza e ragionevolezza.

 


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