Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

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IL PRINCIPIO DI PARITA' DI TRATTAMENTO NEL PUBBLICO IMPIEGO VIETA I TRATTAMENTI INDIVIDUALI MIGLIORATIVI O PEGGIORATIVI RISPETTO A QUELLI PREVISTI DAL CONTRATTO COLLETTIVO - In base all'art. 45 del decreto legislativo n. 165 del 2001 (Cassazione Sezione Lavoro n. 5961 del 16 aprile 2012, Pres. De Luca, Rel. Arienzo).

Nel rapporto di pubblico impiego il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 cpv. non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva. Ciò significa che il principio di parità di trattamento nell'ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal cit. art. 45 D.Lgs. n. 165/2001, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede. Neanche sarebbe ipotizzabile, poi, un contrasto della pattuizione collettiva con il principio di non discriminazione, tale aspetto essendo stato esaminato in termini di esclusione di ogni contrasto dalle pronunzie della Suprema Corte del 18.6.2008 n. 16504 e del 19.6.2008 n. 16676, che hanno espressamente escluso che il principio di non discriminazione abbia valenza di clausola aperta, idonea a vietare ogni  trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo, specifiche previsioni normative (tra le quali, quelle desumibili dall'art. 15 L. n. 300 del 1970) ed hanno affermato, in particolare, che il principio in questione vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti nel contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate nell'esercizio dell'autonomia collettiva. Quando la disparità trova titolo non nelle scelte in cui si estrinseca il potere direttivo del datore di lavoro (sia esso pubblico o privato), ma nelle pattuizioni dell'autonomia collettiva ed in queste non si riscontrano finalità illecite, bensì mere valutazioni comparative, non ricorre più il conflitto del lavoratore con l'altrui iniziativa economica (che era alla base della motivazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 103/89), ma, semmai, con l'autonomia negoziale delle parti collettive. Il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall'esigenza di recuperare uguaglianza o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l'uso d'un potere privato all'interno d'una comunità organizzata. Questo bisogno si manifesta - cioè - per colmare il vuoto di "contraddittorio" ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente. Ma ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato.


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