Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Giudici avvocati e processi

IL POTERE DEL COLLEGIO DI AMMETTERE NUOVE PROVE IN APPELLO NON PUO' ESSERE ESERCITATO PER SANARE PRECLUSIONI E DECADENZE - Già verificatesi nel giudizio di primo grado (Cassazione Sezione Lavoro n. 10337 del 21 giugno 2012, Pres. Lamorgese, Rel. Tria).

In materia probatoria deve darsi continuità alla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui:

  • a) la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisone adottata (vedi, per tutte Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412; Cass. 24 luglio 2007, n. 16346);
  • b) in relazione all'ammissibilità di nuove prove in appello, ex art. 345 cod. proc. civ., qualora la parte dimostri di non aver potuto proporre la prova in primo grado per causa non imputabile, potrà ottenerne l'ammissione a prescindere dal requisito dell'indispensabilità, mentre l'eventuale valutazione di indispensabilità della prova non potrà servire a superare la preclusione nella quale sia incorsa la parte in primo grado in quanto il potere del Collegio di ammettere nuove prove in appello non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado (Cass. 1 giugno 2004, n. 10487);
  • c) la censura contenuta nel ricorso per cassazione relativa alla mancata ammissione della prova testimoniale (o, reciprocamente alla irregolare ammissione della prova testimoniale avversaria) è inammissibile se il ricorrente, oltre a trascrivere i capitoli di prova e ad indicare i testi e le ragioni per le quali essi qualificati a testimoniare - elementi necessari a valutarne la decisività del mezzo istruttorio richiesto - non alleghi e indichi la prova della tempestività e ritualità della relativa istanza di ammissione (o reciprocamente della relativa istanza di non ammissione) e la fase di merito a cui si riferisce, al fine di consentire ex actis alla Corte di cassazione di verificare la veridicità dell'asserzione. L'integrazione ex officio della prova testimoniale ai sensi dell'art. 257, comma primo, cod. proc. civ. - norma applicabile anche nel rito del lavoro - costituisce una facoltà discrezionale che il giudice può esercitare quando ritenga che dall'escussione di altre persone, non indicate dalle parti ma presumibilmente a conoscenza dei fatti, possa trarre elementi per la formazione del proprio convincimento. Ne consegue che la chiamata dei testimoni, nel caso che ad essi altri testi si siano riferiti per la conoscenza dei fatti, costituendo esercizio di una facoltà siffatta, che presuppone un apprezzamento di merito delle risultanze istruttorie, è incensurabile in sede di legittimità, anche sotto il profilo del vizio di motivazione. Il giudizio sulla idoneità della specificazione dei fatti dedotti nei capitoli di prova - che va comunque condotto non solo alla stregua della letterale formulazione dei capitoli medesimi, ma anche ponendo il loro contenuto in relazione agli altri atti di causa ed alle deduzioni dei contendenti - costituisce apprezzamento di merito non suscettibile di sindacato in sede di giudizio di cassazione se correttamente motivato.

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