Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE E' NULLO SE ATTUATO PER RITORSIONE A SUE INIZIATIVE GIUDIZIARIE - Discriminazione (Cassazione Sezione Lavoro n. 17329 dell'11 ottobre 2012, Pres. De Renzis, Rel. Tricomi).

Alessandro S., dirigente, consigliere di amministrazione e socio della Spa Salini Costruttori, dopo aver promosso, come azionista, un'iniziativa giudiziaria nei confronti dell'amministratore delegato della società per questioni attinenti ai rapporti societari, è stato licenziato, con lettera dello stesso a.d. recante la seguente motivazione "le iniziative ostruzionistiche, di non collaborazione e di dichiarato "attacco" poste in essere nei confronti della mia persona e del ruolo da me legittimamente ricoperto, hanno generato contrasti interni e turbative al corretto funzionamento delle strutture e dell'attività aziendale, rendendo impossibile la normale prosecuzione del tuo rapporto di lavoro con la società". Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Roma, sostenendo la natura ritorsiva e chiedendo pertanto la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno a termini dell'art. 18 St. Lav. Il Tribunale ha rigettato la domanda. In grado di appello la Corte di Roma ha invece dichiarato nullo, perché ritorsivo, il licenziamento, ordinando la reintegrazione del cliente nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno ex art. 18 St. Lav. La società ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte romana per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 17329 dell'11 ottobre 2012, Pres. De Renzis, Rel. Tricomi) ha rigettato il ricorso. Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che questa sia - ha affermato la Corte - è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto dell'art. 1418 c.c., comma 2, artt. 1342 e 1324 c.c. Esso costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta; siffatto tipo di licenziamento va ricondotto, data l'analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dalla legge n. 604 del 1966, art. 4, dalla legge n. 300 del 1970, art. 15, e dalla legge n. 108 del 1990, art. 3 - interpretate in maniera estensiva - che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui all'art. 18 della legge n. 300 del 1970. Ciò posto - ha affermato la Corte - va ribadita la regola che l'onere della prova della esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento e del suo carattere determinate da volontà negoziale grava sul lavoratore che deduce ciò in giudizio. In ordine alla verifica che il recesso sia stato motivato esclusivamente da un intento ritorsivo, occorre considerare che si tratta di una valutazione che attiene al merito della decisione e che quindi non può essere riformulata in sede di giudizio di legittimità, salvo vizi di motivazione. Nella fattispecie in esame - ha osservato la Corte - la Corte d'Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi con congrua motivazione; ed infatti dalla contestazione formulata ad Alessandro S. nell'atto della risoluzione del suo rapporto di lavoro, a firma dell'amministratore delegato, si evinceva la natura ritorsiva del licenziamento stesso. La Corte d'Appello riteneva che le iniziative per cui veniva irrogato il licenziamento si riferivano ad Alessandro S. come azionista, e che le stesse non dovevano influenzare il rapporto di lavoro dirigenziale, come invece si era verificato, con conseguente carattere oggettivo ritorsivo del licenziamento, così nullo per essere tale motivo illecito l'unico determinante del soggetto al negozio. Ed infatti, ha osservato la Cassazione, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra le qualità di componente (non unico) dell'organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto fra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista  per la validità delle deliberazioni dell'assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell'organo assembleare all'esercizio del potere gestorio e non essendo ragionevole considerare di per sé irrilevante, al fine di escludere il rapporto di subordinazione, la partecipazione diretta del lavoratore all'organo investito di un siffatto potere e ritenere invece ostativa la partecipazione indiretta e mediata alle scelte societarie attraverso il potere di nominare i soggetti che hanno il compito di effettuarle, ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell'organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell'ambito della società, l'effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione, fattispecie non verificatasi nel caso in esame, ove comunque Alessandro S. era socio di minoranza. Pertanto come ritenuto dalla Corte d'Appello - ha concluso la Cassazione - le condotte poste in essere dal socio/dirigente della società, nell'esercizio dei poteri connessi alla qualità di socio non possono legittimare il licenziamento, sussistendo, diversamente, la contrarietà del motivo, di carattere determinante, alle disposizioni che disciplinano l'esercizio dei diritti sociali.


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