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Legge e giustizia: venerd́ 29 marzo 2024
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COMMETTE IL REATO DI ABUSO DI UFFICIO IL PRIMARIO OSPEDALIERO CHE TENGA UN COMPORTAMENTO VESSATORIO NEI CONFRONTI DEI COLLEGHI - Demansionandoli (Cassazione Sezione Sesta Penale n. 41215 del 22 ottobre 2012, Pres. Milo, Rel. Ippolito).
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Walter A., direttore della clinica urologica dell'Università di Pavia e primario dell'unità operativa di urologia è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale Penale di Padova con l'imputazione di essersi reso responsabile di abuso d'ufficio (art. 323 C.P.), per avere emarginato un medico dall'attività del reparto, ed in particolare escludendolo dalla sala operatoria e per avere spossessato un altro sanitario di funzioni a lui spettanti, in tal modo recando ai due colleghi un danno ingiusto. Il Tribunale lo ha condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, in quanto ha tra l'altro accertato che l'imputato aveva esautorato il dr. T.G. (che da tempo lavorava in reparto come aiuto responsabile della sezione day hospital e aiuto in seconda della sezione dozzinanti) per circa quattro mesi - dal 18 aprile 2006 fino all'intervento del giudice ex art. 700 c.p.c. che lo reintegrò nel suo posto di lavoro - dalle attività chirurgiche (salvo quelle connesse al turno di reperibilità), adottando "un atto di ostracismo ... per monito e punizione" per gli atteggiamenti e comportamenti del T.G. che, contro la volontà del primario, aveva voluto partecipare al concorso di seconda fascia per due posti di professore associato, non aveva accettato il relativo risultato che lo aveva visto soccombere rispetto ad altri due medici e aveva poi assunto iniziative sul piano giudiziario. Il Tribunale ha ritenuto arbitraria la condotta dell'imputato, ritenendo le giustificazioni addotte come apparenti e fittizie sussistendo altre legittime soluzioni per porre rimedio ai suoi contrasti con il T.G. se non avesse riposto in lui fiducia come medico, avrebbe dovuto allontanarlo definitivamente dall'attività sanitaria, mentre invece lo aveva lasciato responsabile nei turni di reperibilità e quando era solo nel reparto; se non lo avesse stimato come persona, lo avrebbe potuto adibire a compiti che non comportavano la compresenza con il direttore. Il Tribunale ha anche accertato che l'imputato aveva arbitrariamente esautorato dalle sue attribuzioni il dr. A. C, suo primo aiuto e vicario per nomina del Direttore generale dell'azienda ospedaliera (delibera n. 140 del 24/2/2005), sostituendolo illegittimamente con il dr C. e ponendo il C. in terza posizione nella gerarchia del reparto, così inducendolo a trasferirsi presso l'ospedale di Dolo, con danno irreversibile per la sua attività professionale. La decisione è stata confermata, sul punto, dalla Corte d'Appello di Venezia che peraltro ha ridotto la pena a un anno oltre danni. L'imputato ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte veneziana per vizi di motivazione e per violazione dell'art. 323 C.P.
La Suprema Corte (Sezione Sesta Penale n. 41215 del 22 ottobre 2012, Pres. Mileo, Rel. Ippolito) ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui "il primario di un ospedale è tenuto, quale pubblico dipendente, a prestare la sua opera in conformità alle leggi ed in modo da assicurare sempre l'interesse della pubblica amministrazione, in particolare ispirandosi nei rapporti con i colleghi, ai sensi dell'art. 13 dello statuto degli impiegati civili dello Stato, al principio di una assidua e solerte collaborazione. Sussiste, pertanto, il reato di abuso di ufficio con violazione di legge, secondo la nuova formulazione dell'art. 323 cod. pen., allorché il medesimo ponga in essere comportamenti di vessazione ed emarginazione dei medici del reparto che non assecondano le proprie scelte", mentre nel caso oggi in esame erano finalizzate ad una gestione autoritaria e "baronale" della clinica urologica sino alla punizione di due qualificatissimi professionisti, emarginandoli al fine di punirli ed indurli ad abbandonare la clinica padovana per altre destinazioni (finalità raggiunta per quanto riguarda il C. e fallita per il T.G. grazie all'intervento del giudice del lavoro). Infondate sono pure le censure che il ricorrente ha avanzato in ordine alla ritenuta applicabilità degli artt. 29 dpr 781/79 e 52 d.lgs 165/2000 e dell'art. 63 d.P.R. 461/79. Nel rapporto di pubblico impiego, pur privatistico - ha affermato la Corte - permangono caratteri di specialità, da cui si deduce una particolare pregnanza e precettività del dovere di imparzialità nella concreta gestione dei rapporti di lavoro, come più volte ha sottolineato la Corte Costituzionale; a tal proposito viene in rilievo l'art. 97 della Costituzione, che può costituire parametro di riferimento per il reato di abuso d'ufficio nella parte in cui esso esprime un carattere immediatamente precettivo, in relazione all'imparzialità dell'azione del funzionario pubblico, che, nel suo nucleo essenziale, si traduce "nel divieto di favoritismi e, quindi nell'obbligo per l'amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili con la medesima misura". Nella fattispecie di cui all'art. 323 cod. pen. - ha osservato la Corte - il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche soltanto dall'inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che impone al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione; ovviamente - ha concluso la Corte - tale principio, già affermato per l'ipotesi di favoritismi, deve applicarsi anche al caso di vessazione, emarginazione e discriminazione motivata da ritorsione e finalizzata a procurare un ingiusto danno.
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