Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL DOVERE DI ESCLUSIVITA' DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE SUSSISTE ANCHE PER IL LAVORO NELL'AZIENDA DI UN PARENTE - E' irrilevante che l'attività non sia retribuita (Cassazione Sezione Lavoro n. 20857 del 26 novembre 2012 Pres. Lamorgese, Rel. Arienzo).

C.L. dipendente, con mansioni impiegatizie, della Regione Lombardia è stata sottoposta a procedimento disciplinare e licenziata con l'addebito di avere lavorato come commessa al negozio di sua sorella in giornata di assenza dal lavoro giustificata con certificato di malattia. La Regione, richiamando l'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 e gli art. 60 e segg. del d.p.r. n. 3 del 1957, ha ritenuto tale comportamento incompatibile con il dovere di esclusività della prestazione per la pubblica amministrazione. Il Tribunale di Pavia, al quale la lavoratrice ha chiesto di annullare il licenziamento, ha rigettato la domanda e la sua decisione è stata confermata in grado di appello dalla Corte di Milano. La lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della corte milanese per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 20857 del 26 novembre 2012 Pres. Lamorgese, Rel. Arienzo) ha rigettato il ricorso. La sentenza impugnata - ha osservato la Cassazione - è sorretta da un'articolata e pertinente motivazione in ordine all'avvenuto accertamento della presenza di C.L. all'interno dell'esercizio commerciale di proprietà della sorella, sia in orario lavorativo, che extralavorativo, ed alla ritenuta irrilevanza della percezione di un compenso continuativo da parte della stessa per l'attività di collaborazione alla vendita di merce prestata. In realtà, ciò che la ricorrente assume di avere sempre contestato non è la circostanza di avere effettivamente dato una mano alla sorella nella gestione del negozio in fase di liquidazione, ma lo svolgimento di attività lavorativa continuativa e retribuita. Tuttavia - ha osservato la Corte - il rilievo si rivela incoerente ai fini considerati, atteso che sia l'art. 23 del c.c.n.l. per il personale dipendente del comparto Regione ed autonomie locali, alla lettera g) pone il divieto di attendere ad occupazioni estranee al servizio, sia l'art. 60 del Testo Unico 3/1957, relativo alla disciplina delle incompatibilità, richiamato dall'art. 53, 1 comma del d.lgs. 165/2001 ("Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e ss. del testo unico approvato con d.p.r. 10.1.957 n. 3"), prevede che l'impiegato non possa esercitare il commercio, l'industria, né alcuna professione, senza alcun riferimento ad attività retribuita, onde il divieto deve ritenersi assoluto, a prescindere dalla sussistenza o meno di remunerazione, ovvero di una continuità della prestazione lavorativa diversa da quella espletata alle dipendenze della P.A. Al riguardo - ha osservato la Corte - a fronte delle prove menzionate in sentenza a supporto della ritenuta integrazione della condotta sanzionata, nulla ha dedotto la ricorrente se non di avere contestato i detti requisiti della remunerazione e della continuità, che, per quanto osservato, non assumono rilevanza ai fini di causa, non rientrando l'attività esercitata neanche in alcuna di quelle costituenti deroga al divieto e per le quali non occorreva autorizzazione. L'idoneità dei fatti accertati a giustificare il licenziamento - ha rilevato la Corte - rientra nella autonomia di valutazione del giudice del merito, sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Una denunzia di tal genere non è contenuta nel motivo di ricorso, vertendo, piuttosto, la doglianza sulla prospettazione di una diversa ricostruzione e valutazione delle circostanze di fatto emerse in istruttoria, senza che si evidenzino vizi logici o elementi di contraddittorietà aventi carattere di decisività ai fini di una diversa soluzione della controversia, sicché ogni altro motivo di ricorso va disatteso per la inidoneità a determinare la necessità di un nuovo esame dei fatti alla luce di criteri logico giuridici, che nella specie risultano già correttamente applicati e posti in maniera coerente a sostegno della decisione oggetto di impugnazione. Infine, neanche assume rilievo l'assunto che sul piano procedurale era necessaria una previa diffida dell'amministrazione, stante l'inderogabilità del divieto sancito dalle norme richiamate, così come irrilevante è il richiamo ai principi di buona fede e correttezza, invocati in modo affatto generico ed in relazione alla assimilazione, tutt'altro che pertinente, della fattispecie ad ipotesi esaminata dalla Suprema Corte di partecipazione del dipendente pubblico in società agricole a condizione familiare con apporto lavorativo modesto e non abituale, che non muta i termini della questione e le considerazioni svolte in  merito alla inderogabilità del divieto sancito dalla normativa menzionata.


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