Legge e giustizia: venerd́ 19 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

UNO SCONTRO VERBALE CON IL SUPERIORE PUO' ESSERE RITENUTO INSUFFICIENTE A GIUSTIFICARE IL LICENZIAMENTO - Se il lavoratore era stato provocato (Cassazione Sezione Lavoro n. 807 del 15 gennaio 2013, Pres. De Renzis, Rel. Venuti).

Alexander K., dipendente della Nencini Laterizi S.p.A. è stato licenziato per avere avuto uno scontro verbale con un superiore e pronunciato frasi ingiuriose. Egli ha impugnato il licenziamento davanti al Tribunale di Firenze, sostenendo di avere reagito a un comportamento provocatorio della direzione aziendale. Il Tribunale ha annullato il licenziamento. Questa decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Firenze che ha osservato che il lavoratore aveva subito ripetuti rilievi, era stato privato di alcune mansioni, gli era stato reiteratamente e pubblicamente richiesto di dimostrare di avere conseguito la laurea in ingegneria. Tenuto conto di tali circostanze, la Corte d'Appello ha giudicato eccessiva la sanzione del licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione della Corte fiorentina per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 807 del 15 gennaio 2013, Pres. De Renzis, Rel. Venuti) ha rigettato il ricorso. E' principio consolidato - ha affermato la Corte - che in tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l'influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. La gravità dell'inadempimento - ha precisato la Corte - deve essere valutata nel rispetto della regola generale della "non scarsa importanza" di cui all'art. 1455 c.c., sicché l'irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, tale cioè da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro per essersi irrimediabilmente incrinato il rapporto di fiducia, da valutarsi in concreto in considerazione della realtà aziendale e delle mansioni svolte. Inoltre va assegnato rilievo all'intensità dell'elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all'assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo. Il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito. Nella fattispecie - ha rilevato la Cassazione - la Corte di merito, con motivazione congrua e priva di vizi logici, dopo aver ricostruito i fatti in base alle risultanze della prova testimoniale, li ha valutati nella loro completezza, sul piano oggettivo e soggettivo alla stregua degli elementi concreti emersi, escludendo che fossero tali da giustificare la sanzione espulsiva; in particolare ha posto in evidenza che il lavoratore non solo veniva frequentemente fatto oggetto di rilievi in ragione della asserita sua inadeguatezza allo svolgimento dei compiti assegnatigli, alcuni dei quali gli furono sottratti, ma ha rimarcato che pubblicamente e reiteratamente gli venne richiesto di dimostrare il titolo di studio (laurea in ingegneria conseguita all'estero) - evidentemente allo scopo di screditarlo nell'ambiente lavorativo - ancorché tale titolo fosse stato allegato al curriculum presentato all'atto dell'assunzione. Da tutto ciò - ha concluso la Cassazione - la Corte territoriale ha argomentato che lo scontro verbale con il diretto superiore, avvenuto nel novembre 2004, fu determinato da una comprensibile, seppure censurabile, reazione del lavoratore, determinata dall'atteggiamento ostile tenuto dall'azienda nei suoi confronti, onde non poteva ritenersi giustificata la sanzione espulsiva comminatagli.


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