Legge e giustizia: mercoledì 17 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

UN LAVORATORE LASCIATO IN CONDIZIONI DI FORZATA INOPEROSITA' NON PUO' ESSERE LICENZIATO PER MANCATO RISPETTO DELL'ORARIO DI LAVORO - In base all'art. 1460 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 1693 del 24 gennaio 2013, Pres. De Renzis, Rel. Marotta).

Angelo D. dipendente della Telecom Italia S.p.A. è stato privato delle sue mansioni e lasciato in condizioni di forzata inoperosità per circa due anni. Nell'agosto del 2004 egli è stato licenziato in tronco con motivazione riferita al mancato rispetto dell'orario di lavoro. Egli ha impugnato il licenziamento sostenendo che il suo comportamento doveva ritenersi giustificato in base all'art. 1460 cod. civ. (inadimplenti non est adimplendum) dal momento che l'azienda si era resa inadempiente all'obbligo di farlo lavorare e per tanto non poteva pretendere il rispetto dell'orario di lavoro. Egli ha anche rilevato l'illegittimità del licenziamento per la sua tardività. Per il demansionamento subito egli ha chiesto la condanna dell'azienda al risarcimento del danno. Il Tribunale ha rigettato la domanda di annullamento del licenziamento, mentre ha accolto quella risarcitoria del danno, determinando l'importo dovuto al lavoratore per tale titolo a 26.000,00 euro. In grado di appello, la Corte di Roma, accogliendo l'impugnazione proposta dal lavoratore, ha annullato il licenziamento. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte romana per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 1693 del 24 gennaio 2013, Pres. De Renzis, Rel. Marotta) ha rigettato il ricorso. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione lavorativa (ad esempio in caso di adibizione a mansioni inferiori) può essere legittimo e quindi non giustificare il licenziamento in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall'art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all'illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede. Il Giudice - ha affermato la Corte - ove venga proposta dalla parte l'eccezione inadimplenti non est adimplendum, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, per cui qualora rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l'eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte a norma dell'art. 1455 cod. civ., deve ritenersi che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato ai sensi dell'art. 1460, comma 2, cod. civ.. Poiché ogni umano agire è determinato, pur in limitata misura, dall'esterna situazione nella quale si svolge, ed in particolare dall'altrui comportamento (rispetto al quale possa eventualmente aver costituito reazione), corrisponde ad una necessità logica oltre che giuridica - ha osservato la Corte - valutare la condotta del lavoratore nel quadro delle condizioni in cui si è svolta. Il che vale a dire che uno stato di forzata inattività imputabile al datore di lavoro, pur senza legittimare un rifiuto del lavoratore di adempiere alla propria prestazione, può tuttavia aver contribuito a determinare una situazione di inadempimento del lavoratore e, dunque, ben può essere preso in considerazione per inferirne un ridimensionamento della gravità dell'inadempimento stesso. Per quanto attiene alla tardività del licenziamento la Corte ha ricordato la sua giurisprudenza secondo cui la tempestività della reazione del datore di lavoro all'inadempimento del lavoratore rileva sotto due distinti profili: sotto un primo aspetto, quando si tratti di licenziamento per giusta causa, il tempo trascorso tra l'intimazione del licenziamento disciplinare e l'accertamento del fatto contestato al lavoratore può indicare l'assenza di un requisito della fattispecie prevista dall'art. 2119 cod. civ. (incompatibilità del fatto contestato con la prosecuzione del rapporto di lavoro), in quanto il ritardo nella contestazione può indicare la mancanza di interesse all'esercizio del diritto potestativo di licenziare; sotto un secondo profilo, la tempestività della contestazione permette al lavoratore un più preciso ricordo dei fatti e gli consente di predisporre una più efficace difesa in relazione agli addebiti contestati: con la conseguenza che la mancanza di una tempestiva contestazione può tradursi in una violazione delle garanzie procedimentali fissate dalla legge n. 300 del 1970, art. 7. Nel caso di specie - ha affermato la Cassazione - la Corte  territoriale ha correttamente ritenuto che il tempo trascorso fino alla contestazione fosse in contrasto con la regola della buona fede e della correttezza nell'attuazione del rapporto di lavoro; in particolare trattandosi nella specie di più fatti tutti autonomamente suscettibili di sanzione disciplinare (e, dunque, non di comportamenti necessitanti di una valutazione unitaria in quanto convergenti a comporre un'unica condotta), la Corte d'Appello ha considerato che la mancanza di una tempestiva contestazione delle singole infrazioni operasse quale fonte di una presunzione che si trattasse di un comportamento tollerato. Trattasi, all'evidenza, di una ragione giustificativa della regola di immediatezza della contestazione coincidente con quella che connette l'onere di tempestività al principio di buona fede oggettiva e più specificamente al dovere di non vanificare la consolidata aspettativa, generata nel lavoratore, di rinuncia all'esercizio del potere disciplinare. Si tratta di una sorta di decadenza dal potere (nel sistema tedesco: Verwirkung), derivante dalla violazione del più generale divieto di venire contra factum proprium.


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