Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL RISARCIMENTO DEL DANNO PROFESSIONALE PUO' ESSERE DETERMINATO EQUITATIVAMENTE IN BASE AL CURRICULUM DEL LAVORATORE, ALLE PROSPETTIVE DI CARRIERA, ALLA DURATA DEL DEMANSIONAMENTO, ALLA PERDITA DEI COMPENSI VARIABILI - Anche in base all'art. 115 cod. proc. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 25617 del 14 novembre 2013, Pres. Stile, Rel. Bandini).

 Sergio P. dipendente della Rai Radiotelevisione italiana con qualifica di dirigente, ha svolto per vari anni, come vice direttore, l'incarico di "seguire la programmazione dell'intrattenimento comico", provvedendo alla ideazione e alla realizzazione dei programmi. A far tempo dal gennaio 2001 egli è stato privato di ogni incarico, essendo stato nominato un altro vice direttore con la delega per l'intrattenimento in generale. Egli ha chiesto al Tribunale di Milano di ordinare alla Rai a reintegrarlo nelle mansioni in precedenza svolte e di condannare l'azienda al risarcimento del danno. Il Tribunale ha accolto la domanda, determinando equitativamente il risarcimento del danno professionale in misura pari alla retribuzione relativa al periodo del demansionamento; inoltre il Tribunale ha risarcito il danno derivato al lavoratore dalla perdita della parte variabile della retribuzione. In grado di appello la Corte di Milano ha confermato la decisione di I grado, rilevando, per quanto concerne il risarcimento del danno:

  • - che il demansionamento del dirigente era stato grave anche perché si era protratto per lungo tempo l'inadempimento dell'azienda, che lo aveva privato di una concreta attività di direzione in tutti gli aspetti (attività progettuale, di scelta di programmi e dei relativi soggetti che dovevano dirigerli o condurli, attività organizzativa e quindi controllo dei budget per la realizzazione);
  • - né era stato contestato che Sergio P. avesse un background professionale di tutto rispetto, cosi come descritto in ricorso e nei documenti allegati, non contestati dalla parte datoriale;
  • - l'inattività aveva quindi compromesso il mantenimento di una esperienza professionale, ma anche la chance di sviluppo di carriera, quantomeno nel suo specifico ambito professionale, quello dei media televisivi, di cui la Rai è notoriamente uno dei due soggetti preminenti a livello nazionale;
  • - la liquidazione del danno patrimoniale poteva avvenire in termini equitativi e i fatti allegati da Sergio P. e non contestati, relativi al suo non contestato curriculum lavorativo, nonché il periodo della inattività, pressoché totale dopo il luglio 2003 [rectius: 2002], erano elementi che avevano un valore probatorio, anche presuntivo, di un sicuro danno professionale;
  • - ma il danno professionale subito racchiudeva in sé sia aspetti strettamente patrimoniali, in relazione al deterioramento delle esperienze acquisite ed al venir meno di sicure e sempre più possibili prospettive di carriera future, sia anche in termini di immagine, collegata proprio alle prospettive di carriera; si tratta quindi di danni intrinsecamente connessi ed era perciò fondata la doglianza relativa alla intervenuta duplicazione degli stessi, dovendosi escludere la somma liquidata a titolo di danno all'immagine;
  • - la liquidazione del danno in termini di riconoscimento di una somma pari alla retribuzione mensilmente percepita, per tutti i mesi di dequalificazione, risultava essere idonea, unitamente al riconoscimento delle somme variabili non liquidate, a compensare i pregiudizi arrecati al lavoratore in ragione dell'inadempimento aziendale;
  • - la mancata prestazione lavorativa nei termini contrattualmente concordati aveva impedito al ricorrente di ottenere la parte variabile della retribuzione e dunque anche tale danno, l'unico realmente non determinato in via equitativa, andava riconosciuto.

La Rai ha proposto ricorso per cassazione  censurando la decisione della Corte milanese per vizi di motivazione e violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 25617 del 14 novembre 2013, Pres. Stile, Rel. Bandini) ha rigettato il ricorso. Secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità - ha osservato la Corte - in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) - il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico - si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 c.p.c., a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove. A tali criteri - ha concluso la Corte - si è attenuta la Corte territoriale nel riconoscimento del danno e nella sua conseguente liquidazione equitativa.


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