Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024

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LICENZIAMENTO DURANTE IL PERIODO DI PROVA - Testo integrale della sentenza della Suprema Corte, Sezione Lavoro n. 402 del 17 gennaio 1998 (Pres. Nuovo, Rel. Amoroso). La sintesi è nella sezione Lavoro (Fatto e Diritto)

R E P U B B L I C A I T A L I A N A

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E

SEZIONE LAVORO

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Raffaele NUOVO Presidente

Dott. Bruno D’ANGELO Consigliere

Dott. Donato FIGURELLI Consigliere

Dott. Bruno BATTIMIELLO Consigliere

Dott. Giovanni AMOROSO Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sul ricorso proposto da: QUATTROCCHI MARIA, elettivamente domiciliata in Roma Cancelleria Corte Suprema di Cassazione, presso lo studio dell’avvocato Antonio Siracusa, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti ricorrente

contro

ALHOF DI A. HOFMANN S.r.1., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA G.AVEZZANA 13, presso lo studio dell'avvocato LUCIANA BONIFAZI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati PAOLO ANDREOTTI, LUIGI FRACCARI, giusta delega in atti; controricorrente

avverso la sentenza n. 7858/94 del Tribunale di MILANO, depositata il 03/09/94 r.g.n.276/94;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/04/97 dal Relatore Consigliere Dott. Giovanni AMOROSO;

udito l'Avvocato BONIFAZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Mario DELLI PRISCOLI che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 - Con ricorso del 21 marzo 1994 al Pretore di Milano Quattrocchi Maria esponeva che - dopo essere stata assunta il 29 gennaio 1993 dalla società ALHOF s.r.1. come impiegata di II livello (qualifica prevista dal contratto collettivo del commercio applicabile al rapporto) con mansioni di addetta alle vendite per un periodo di prova di tre mesi - era stata licenziata il 30 marzo 1993 per il mancato superamento della prova dopo che il Direttore generale della società l'aveva preavvertita che l'azienda doveva ridurre i costi. Chiedeva quindi dichiararsi l'illegittimità del licenziamento perchè privo di giusta causa o di giustificato motivo. Si costituiva la società convenuta chiedendo il rigetto della domanda. Con sentenza del 28 luglio 1993 il Pretore di Milano rigettava la domanda della ricorrente. Avverso tale pronuncia la ricorrente proponeva appello, sostenendo che aveva superato la prova tanto che ra stata adibita a mansioni di responsabile delle vendite con mansioni superiori rispetto quelle previste. Si doleva inoltre del fatto che il Pretore avrebbe dovuto ammettere le prove per accertare che la società aveva receduto per motivi diversi dall'esito della prova, come emergente anche dal fatto che la società nelle sue difese di primo grado aveva addotto, a giustificazione del recesso, motivi di crisi aziendale e non motivi attinenti alla prova. Si costituiva la società e chiedeva il rigetto dell'appello rilevando che la lavoratrice aveva lavorato come addetta all'acquisizione di ordini telefonici alle dipendenze del responsabile delle vendite; che l'azienda aveva subito l'andamento sfavorevole delle importazioni di prodotti industriali; che aveva risolto il rapporto con la lavoratrice perchè le vendite avevano subito una stasi dal marzo 1993 e perchè la stessa aveva turbato l'armonia dell'ufficio vendite con il suo carattere; che, su richiesta della lavoratrice, le aveva rilasciato una seconda lettera di recesso per evidenziare le sue capacità professionali e l'aveva motivata con il calo delle vendite.

Il Tribunale di Milano con sentenza 3 settembre 1994 rigettava l'appello, confermando la sentenza di primo grado. In particolare il Tribunale - nel richiamare la libera recedibilità dal rapporto in prova, pur con i limiti introdotti dalla sentenza n.189 del 1980 della Corte costituzionale - osservava che la ricorrente non aveva mai indicato quale fosse stato il motivo illecito del licenziamento. Pertanto - affermava il Tribunale - quando il lavoratore non indica il motivo illecito, non è consentito effettuare indagini e sostituirsi nella valutazione del superamento della prova all'imprenditore che ha una assoluta discrezionalità, se ha gestito la prova correttamente. Avverso tale decisione ricorre per cassazione la Quattrocchi con un unico complesso motivo di impugnazione. Resiste con controricorso la società ALHOF s.r.1..

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 - Con l'unico motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell'art. 2096 c.c.. In particolare la ricorrente si duole del fatto che il Tribunale, pur riportandosi all'orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in ordine alla possibilità del lavoratore di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso intimato in periodo di prova, dimostrando il positivo superamento dell'esito della prova e l'imputabilità del licenziamento ad un fatto o motivo illecito, ha sostenuto che la ricorrente non avrebbe mai provato, e neppure indicato, il motivo illecito. Invece nel ricorso introduttivo erano indicate le ragioni reali della risoluzione del contratto, ragioni che costituivano un motivo estraneo alla causa del patto di prova e quindi integravano l'ipotesi del motivo illecito. D'altra parte anche la resistente, nel costituirsi in giudizio, aveva affermato che in seguito alla perdurante recessione e al calo del fatturato la società si era vista costretta a ridurre organico e spese e che la risoluzione del rapporto di lavoro con la Quattrocchi era stato il primo provvedimento assunto; in particolare la Quattrocchi era stata scelta perchè ultima assunta e perchè con il suo "caratterino" turbava l'armonia nel reparto vendite. La difesa della ricorrente insiste in particolare nell'affermare che è illecita ogni motivazione che non faccia riferimento alla prova, intesa dal legislatore quale causa del rapporto di lavoro. Il calo del fatturato, la recessione economica e la crisi di mercato non sono quindi compatibili con il sistema dell'art. 2096 cod. civ.. In realtà la società avrebbe dovuto assumere la Iavoratrice a tempo indeterminato (trasformando il rapporto) e successivamente procedere a licenziamento per giustificato motivo oggettivo per riduzione di personale a seguito della sopravvenuta crisi aziendale. Il ricorso è fondato. La libera recedibilità dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova, prevista per ciascuna delle parti dal terzo comma dell'art. 2096 c.c., è stata dapprima temporalmente circoscritta dall'art. 10 1. 15 luglio 1966 n.604, che, con disposizione inderogabile, prevede soltanto per un periodo massimo di sei mesi dall'inizio del rapporto stesso l'inapplicabilità della legge medesima e quindi l'esonero dal controllo di giustificatezza del licenziamento individuale, e successivamente è stata in una certa misura limitata dalla giurisprudenza costituzionale e di illegittimità. Ne è risultato un regime intermedio che non è più quello codicistico della mera libera recedibilità, ma non è neppure quello del recesso causale (per giusta causa o per giustificato motivo). 

3 - E' stata soprattutto la giurisprudenza costituzionale ad incidere significativamente sulla disciplina del recesso in periodo di prova.

3 - 1 - Con una pronuncia interpretativa di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale del cit. terzo comma dell'art. 2096 c.c. la Corte (C. cost. n. 189 del 1980) - superando un precedente (meno aperto) orientamento (C. cost. n.204 del 1976) - ha indicato l'interpretazione adeguatrice che - postulando che la discrezionalità del datore di lavoro nel recedere dal rapporto durante il periodo di prova non è da intendersi assoluta ed insindacabile, bensì « si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore » - consente di escludere la violazione dei parametri allegati e segnatamente degli artt. 35 e 41, comma 2, Cost.. La Corte ha quindi tracciato quelle che sono le linee di un possibile sindacato del recesso ad nutum del datore di lavoro. Il lavoratore può innanzi tutto contestare la "legittimità" del licenziamento "quando risulti che non è stata consentita, per inadeguatezza della durata dell'esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato" , sicchè la congruità del periodo di prova, ancorchè non prevista dall'art. 2096 c.c., è divenuta presupposto di legittimità del recesso del datore di lavoro. Inoltre - prosegue la pronuncia della Corte costituzionale - il lavoratore può eccepire e dedurre la "nullità" del licenziamento ove riesca a "dimostrare il positivo superamento dell'esperimento nonchè l'imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito" .

3 - 2 - Questa giurisprudenza costituzionale è stata poi portata a conseguenze ulteriori e più avanzate con riferimento a due speciali ipotesi di rapporto di lavoro in prova, in cui si sovrappongono peculiari ragioni di tutela del prestatore: quella dei soggetti, appartenenti a categorie protette, awiati per il collocamento obbligatorio, e quella della donna in gravidanza o purperio. Nell'un caso « il recesso del datore di lavoro deve avere una adeguata motivazione» (C. cost. n.255 del 1989) sicchè si va anche al di là della ordinaria disciplina della tutela reale ed obbligatoria che non prescrive l'obbligo di motivazione del licenziamento se non a seguito di tempestivo interpello del lavoratore (art. 2 1. n.604/66, cit.); inoltre « la corretta conduzione e il corretto espletamento della prova è soggetta al sindacato del giudice » , tenendo conto che « l'esito della prova non deve essere assolutamente influenzato da considerazioni di minor rendimento dovute alle infermità o alle minorazioni » del prestatore. Nell'altro caso C. cost. n.172 del 1996 - pur avendo da una parte eliminato, con dichiarazione di incostituzionalità, l'estensione anche al periodo di prova (come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità) della speciale garanzia del divieto di licenziamento della lavoratrice in gravidanza o in puerperio - ha bilanciato il conseguente deficit di tutela disegnando una disciplina così formulata: se il datore di lavoro, che risolve il rapporto in prova, conosce lo stato di gravidanza della lavoratrice, «deve spiegare motivatamente le ragioni che giustificano il giudizio negativo circa l'esperimento» ; se ignora lo stato di gravidanza, non è tenuto a motivare il licenziamento perchè opera l' " esonero di motivazione, secondo la disciplina generale degli artt. 2096 cod. civ. e 10 della legge n.604 del 1966" (esonero che in realtà riguarda la necessità della giusta causa o del giustificato motivo come presupposti del recesso, pittosto che la motivazione, non essendo prescritto in generale che il licenziamento debba essere intimato con la contestuale indicazione della motivazione), ma la lavoratrice può provare che il licenziamento è stato determinato « da altri motivi pur sempre estranei alla finalità dell'esperimento»

3 - 3 - Sinteticamente quindi può dirsi che nel periodo di prova non c'è il mero regime di libera recedibilita daI rapporto essendo comunque consentito entro certi limiti un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore. Conclusione questa peraltro in sintonia con il parallelo assetto, risultante da C. cost. n.169 del 1973, della disciplina del licenziamento dell'apprendista, intimato nel periodo di tirocinio, licenziamento che - a seguito di tale pronuncia - è assoggettato al regime del recesso causale, salva la facoltà del datore di lavoro di recedere ex art. 19 1. n. 25 del 1955 al termine del periodo medesimo. La giurisprudenza di legittimità a sua volta si è inserita in questo processo di evoluzione della giurisprudenza costituzionale talora seguendo una direttrice più cauta, che - limitandosi a richiamare la deducibilità da parte del lavoratore in prova dell'eventuale motivo illecito del recesso (oltre che dell'inadeguatezza della durata dell'esperimento) - sembra ridimensionare l'interpretazione adeguatrice appena esaminata per ricollocare il rapporto in prova nel regime della mera recedibilità, che in generale non preclude certo la dedueibilità del motivo illecito; talaltra, muovendosi lungo una direttrice più avanzata, la giurisprudenza di questa Corte ha operato l'equiparazione - quanto all'idoneità ad inficiare il recesso - del motivo estraneo all'esito dell'esperimento al motivo illecito (che costituisce lo specifico profilo che rileva nel giudizio in esame). In particolare - quanto a questo secondo, più avanzato, orientamento, che può considerarsi un completamento ed un'evoluzione della precedente giurisprudenza - si è affermato che « il sindacato del giudice ... può essere sollecitato in ordine alla verifica del collegamento tra recesso ed esito dell'esperimento » (Cass. l dicembre 1992 n.12814).

Più esplicitamente Cass. 21 aprile 1993 n.4669 ha ribadito che il recesso del datore di lavoro « deve essere collegato all'esito dell'esperimento » sicchè il lavoratore può dedurre la « nullità» del licenziamento provando «il positivo superamento dell'esperimento e l'imputabilità del recesso ad un motivo estraneo e quindi illecito»; affermazione questa che esibisce appunto la raggiunta equiparazione del motivo estraneo all'esito della prova al motivo illecito (ma in tal senso già Cass. 25 giugno 1987 n.5608; 17 marzo 1986 n.1833; 6 febbraio 1984 n.913). Analogamente, ed ancor più recentemente, Cass. 9 novembre 1996 n.9797 ha affermato che l'esercizio del potere di recesso, consentito anche nel corso del periodo di prova (salvo che questa sia stata stabilita per un termine minimo necessario) deve essere coerente con la causa del contratto, sicchè il licenziamento è legittimo ove il lavoratore non dimostri il positivo superamento dell'esperimento, nonchè l'imputabilità del recesso ad un motivo « estraneo e perciò illecito » . Parallelamente però si rinvengono ancora posizioni più caute che fanno riferimento solo al motivo illecito (oltre all'inadeguatezza dell'esperimento). In particolare Cass. 25 marzo 1996 n.2631 ha affermato che il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato e che incombe sul lavoratore licenziato l'onere di provare che il recesso è stato determinato da motivo illecito o che il rapporto in prova si è svolto in tempi e con modalità inadeguate rispetto alla funzione del patto, da valutarsi essenzialmente sulla base delle clausole generali di correttezza e buona fede di cui agli art. 1175 e 1375 c.c..

5 - Complessivamente, coniugando la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità, risulta un'ibridazione della disciplina del licenziamento individuale in periodo di prova a metà strada tra la libera recedibilità ed il recesso causale per giusta causa o giustificato motivo. Isolando poi in particolare la specifica questione dell'idoneità, o meno, del motivo estraneo all'esperimento lavorativo ad inficiare il recesso, emerge uno sviluppo giurisprudenziale che, inizialmente focalizzando nel solo motivo illecito in senso stretto il possibile sindacato del giudice sulle ragioni del recesso, è pervenuta più recentemente, all'equiparazione del motivo estraneo a quello illecito. Tale problematicità ricostruttiva è poi rispecchiata proprio dalla contrapposizione tra la pronuncia impugnata (che ha ritenuto legittimo il licenziamento della lavoratrice in prova non avendo quest'ultima provato, ma in realtà neppure dedotto, alcun motivo illecito del recesso) e la difesa della ricorrente (che censura tale pronuncia insistendo nell'affermare l'illegittimità del licenziamento perchè sorretto da un motivo estraneo all'esperimento, ancorchè in sè non illecito).

6 - Mette conto a questo punto precisare che, al di là di imprecisioni terminologiche, è pacifico tra le parti in causa (e risulta finanche dal controricorso) che la lavoratrice in prova è stata licenziata « in seguito al calo di fatturato ed alla stasi delle attività commerciali che hanno costretto la società a ridurre costi e spese fisse, e , quindi, il suo organico » ; conseguentemente è stato ridimensionato l'organico dell'ufficio vendite e la scelta del dipendente da licenziare tra quelli addetti all'ufficio è caduta sulla lavoratrice ricorrente « perchè ultima assunta ... e per il suo "caratterino" ed il suo modo di fare con le colleghe » . E' questo un motivo estraneo all'esperimento (anche il riferimento alle connotazioni comportamentali della ricorrente è stato fatto per indirizzare la scelta del dipendente da licenziare e non già al fine della valutazione dell'idoneità della stessa e quindi dell'esito della prova), ma non costituisce certo un motivo illecito essendo anzi positivamente previsto dall'art. 3 1. n.604/66 che il giustificato motivo (oggettivo) di licenziamento possa consistere in ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento.

7 - La fattispecie in esame è quindi emblematica dello specifico profilo della rilevanza del motivo estraneo all'esperimento lavorativo, questione questa in ordine alla quale il canone dell'interpretazione adeguatrice, quale indicato da C. cost. n. 189 del 1980, offre ancora una volta le coordinate per un'ulteriore puntualizzazione sul tema, così sviluppando l'orientamento giurisprudenziale finora esaminato. In disparte la possibile inadeguatezza della durata della prova, che non è in discussione, va innanzi tutto ribadito che la mancata prova da parte del lavoratore licenziato di un motivo illecito del recesso del datore di lavoro non esaurisce il possibile sindacato giudiziale, come viceversa ha mostrato di ritenere la pronuncia impugnata per essersi arrestata a tale valutazione senza prendere in considerazione il motivo, ancorchè non illecito, del recesso medesimo. Se così fosse, risulterebbe null'altro che l'ordinario regime di libera recedibilità, che vede comunque deducibile la nullità del recesso per motivo illecito; ma ciò contrasterebbe con l'interpretazione adeguatrice offerta da C. cost. n. 189/80, cit., che - come sopra più ampiamente esposto - ha mostrato di ritenere altrimenti illegittima la disposizione censurata ove interpretata, secondo il suo tenore letterale, nel senso di prevedere il mero regime di libera recedibilità. Quindi il lavoratore licenziato può dedurre anche il motivo « estraneo » all'esperimento offrendo vuoi la prova diretta della sua esistenza, vuoi quella indiretta a mezzo della prova del positivo superamento dell'esperimento che depone, con la valenza della presunzione semplice, per l'esistenza di un motivo diverso da quello del mancato superamento dell'esperimento stesso.

Il motivo « estraneo » all'esperimento non è però in sè motivo illecito ex art. 1345 c.c., nè è a quest'ultimo equiparabile quanto all'idoneità ad inficiare il recesso come affetto da vizio di nullità. Se così fosse, si avrebbe un'anomala ed ingiustificata stabilità e resistenza del rapporto in prova di fronte a quelle cause che sono riconducibili al giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Si determinerebbe infatti una differenziazione di disciplina, di dubbia legittimità costituzionale, tra lavoratori in prova e lavoratori ordinari in danno di questi ultimi perchè solo essi, e non anche i primi, sarebbero assoggettabili a licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo. L'elemento differenziale tra le due fattispecie in comparazione (ossia l'essere in corso, o meno, un esperimento lavorativo) è semmai neutro rispetto alla sopraggiunta evenienza di un'esigenza aziendale di ridimensionamento di un reparto e di conseguente soppressione di un posto di lavoro; ma certo non può giocare a sfavore di chi la prova abbia già superato o sia stato assunto senza patto di prova. Ancora una volta quindi è il canone dell'interpretazione adeguatrice ad indurre a scartare soluzioni che si pongano in contrasto con parametri costituzionali e ad orientare l'esegesi verso l'affermazione di un sindacato sulla giustificatezza del motivo estraneo all'esperimento, non dissimile da quello sotteso all'art. 3 l.n.604/66, quanto al giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in regime di recesso causale. In questa limitata ipotesi quindi vi è una sostanziale parificazione della posizione del lavoratore in prova a quella del lavoratore ordinario. Sicchè è solo l'ingiustificato motivo estraneo all'esperimento (e non già il motivo estraneo tout court) ad inficiare il recesso al pari del motivo illecito con conseguente obbligo del datore di lavoro di proseguire la prova illegittimamente interrotta. Tale sindacato sulla giustificatezza del motivo del licenziamento implica una valutazione di merito per verificare nella specie l'autenticità dell'allegata crisi del settore in cui operava la società resistente ed il nesso di causalità con la risoluzione del rapporto di lavoro con la ricorrente.

8 - In conclusione quindi la pronuncia impugnata va cassata perchè, sul presupposto della ritenuta deducibilità del solo motivo illecito, ha omesso di tener conto del fatto che il licenzlamento della lavoratrice in prova era sorretto da un motivo [pur lecito, ma) del tutto estraneo all'esperimento lavorativo in tal modo incorrendo nell'erronea 'applicazione del più volte cit. terzo comma dell'art. 2096 c.c..

La causa va pertanto rimessa al tribunale di Monza che si atterrà al principio secondo cui, ove il lavoratore, in caso di licenziamento in periodo di prova, dimostri che il recesso è avvenuto per un motivo estraneo all'esperimento lavorativo, ma non qualificabile come motivo illecito, il giudice deve valutarne la giustificatezza al fine di accertare l'idoneità, o meno, del recesso a por termine alla prova ed a risolvere il rapporto.

PER QUESTI MOTIVI

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese al Tribunale di Monza.

Così deciso in Roma, il 17 aprile 1997.

Il Consigliere estensore (Giovanni Amoroso)

Il Presidente (Raffaele Nuovo)


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