|
Legge e giustizia: giovedì 25 aprile 2024
|
LE DIMISSIONI POSSONO ESSERE ANNULLATE PER INCAPACITA' DI INTENDERE E DI VOLERE, IN CASO DI PARTICOLARE GRAVITA' DELLA PATOLOGIA - In base all'art. 428 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 22836 del 28 ottobre 2014, Pres. Roselli, Rel. Lorito).
|
Marco
B., dipendente della Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo S.p.A. ha
prelevato dal suo conto corrente, nel marzo 97, la somma di lire 25 milioni
allo scoperto senza la prevista autorizzazione del responsabile dell'ufficio.
La direzione, accertata l'operazione, ha invitato il dipendente a ripianare il
debito e a dimettersi. Questi ha provveduto a quanto richiestogli ed ha
presentato le dimissioni. Successivamente Marco B. si è rivolto al Tribunale di
Teramo chiedendo l'annullamento delle dimissioni in base all'art. 428 cod. civ.
secondo cui possono essere annullati gli atti compiuti da una persona che,
sebbene non interdetta, provi di essere stata, per qualsiasi causa, anche
transitoria, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono
stati compiuti. Egli ha affermato che all'epoca della firma delle dimissioni si
trovava in uno stato di grave prostrazione psico-fisica per disturbi
ansioso-depressivi, ascrivibili anche all'ambiente di lavoro in cui aveva
operato. Il Giudice, dopo aver sentito alcuni testimoni ed eseguito
accertamenti medico legale, ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata
confermata in grado di appello dalla Corte di L'Aquila, che ha motivato la sua
decisione rilevando che dall'attività istruttoria era emersa l'insussistenza di
una particolare gravità della patologia da cui era affetto il ricorrente che
fosse tale da escludere, anche temporaneamente, la sua capacità di intendere e
di volere. La Corte ha rimarcato poi, che le dimissioni rassegnate da Marco B.,
non potevano ritenersi integrare in sé, un comportamento assolutamente
irrazionale, tale da costituire prova sufficiente del proprio stato di incapacità
naturale, essendo state logicamente motivate da un non corretto comportamento
professionale in precedenza assunto e dalla esigenza di evitare le conseguenze,
anche di natura penale, da esso derivanti. Il lavoratore ha proposto ricorso
per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e
violazione di legge.
La
Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 22836 del 28 ottobre 2014, Pres. Roselli, Rel.
Lorito) ha rigettato il ricorso. La decisione impugnata - ha osservato la Corte
- appare sorretta da un iter logico del tutto congruo e conforme ai principi
più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui "perché l'incapacità naturale del dipendente
possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario
che si abbia la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, ma è
sufficiente che tali facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od
ostacolare una serie valutazione dell'atto e la formazione di una volontà
cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del
soggetto e la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere. La
valutazione in ordine alla gravità della diminuzione di tali capacità è
riservata al giudice di merito e non è censurabile in cassazione se
adeguatamente motivata".
Nello specifico - ha osservato la Cassazione - così come riportato nello
storico di lite, la Corte territoriale ha accertato, alla stregua degli
espletati accertamenti medico-legali, che Marco B. era affetto da una sindrome
ansioso-depressiva non di tale gravità da far venire meno la capacità di
autodeterminazione del soggetto e da seriamente inibire la sua capacità di
valutazione dell'atto, al momento in cui aveva rassegnato le proprie
dimissioni.
© 2007 www.legge-e-giustizia.it |
|