Legge e giustizia: venerd́ 19 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

IL TERMINE PER IMPUGNARE IL LICENZIAMENTO DAVANTI AL GIUDICE NON E' DI 330 GIORNI - In base all'art. 6 della legge n. 604 del 1966 e all'art. 32 L. n. 183 del 2010 (Cassazione Sezione Lavoro n. 5717 del 20 marzo 2015, Pres. Roselli, Rel. Maisano).

L'art. 6 della legge n. 604 del 1966, come modificato dall'art. 32 della legge n. 183 del 2010, prevede il termine decadenziale di 60 giorni per l'impugnazione del licenziamento a mezzo di comunicazione scritta e sancisce l'inefficacia della impugnazione stessa se non seguita entro i successivi 270 giorni dal deposito del ricorso in sede giudiziaria. La lavoratrice C.A. ricevuto il licenziamento il 29 febbraio 2012, lo ha impugnato con comunicazione scritta il 19 marzo 2012; quindi ha depositato il ricorso in sede giudiziaria davanti al Tribunale di Cosenza il 21 gennaio 2013. Il Tribunale ha rigettato la domanda. Questa decisione è stata riformata, in grado di appello, dalla Corte di Catanzaro, che ha ritenuto che il termine di 270 giorni per il ricorso in sede giudiziaria decorra dalla scadenza del termine di 60 giorni per l'impugnazione in forma scritta, per cui il termine complessivo per l'impugnazione giudiziale doveva stabilirsi in sessanta più duecentosettanta giorni e quindi in trecentotrenta giorni complessivi. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte calabrese per violazione di legge e sostendo che il termine per l'impugnazione in sede giudiziaria decorre dall'atto di impugnazione stragiudiziale e non dalla scadenza del termine di 60 giorni previsto per tale impugnazione.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 5717 del 20 marzo 2015, Pres. Roselli, Rel. Maisano) ha accolto il ricorso. A norma dell'art. 6, primo comma, L. n. 604 del 1966, "il licenziamento dev'essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta ... con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere  nota la volontà del lavoratore...". Per l'impedimento di questa decadenza è sufficiente la consegna dell'atto all'ufficio pubblico che cura la spedizione, come ha stabilito Cass. Sez. Un. 14 aprile 2010 n. 8830, non rilevando perciò il giorno di ricezione da parte del datore di lavoro. Prima che il secondo comma di detto art. 6 venisse novellato dall'art. 32 L. n. 183 del 2010, una volta impedita la decadenza, il potere di impugnare in via giudiziale il licenziamento veniva assoggettato, a norma dell'art. 2967 cod. civ., al termine quinquennale di prescrizione di cui all'art. 442, primo comma, cod. civ.  Sembrò al legislatore - ha osservato la Corte - che la durata di questo termine lasciasse troppo a lungo incerta la posizione del datore di lavoro, sottoposto alla possibilità dell'ordine di reintegrazione da parte del giudice e della condanna a risarcire un danno che aumentava col trascorrere del tempo. La lunghezza di detto termine poteva così favorire una sorta di abuso della prescrizione, ossia di inerzia del lavoratore, che traesse vantaggio dalla protrazione dell'esercizio del suo potere di impugnare e di chiedere il risarcimento del danno da licenziamento illegittimo. Intervenne così il legislatore del 2010, che con l'art. 32, comma 1 cit., stabilì: "L'impugnazione (stragiudiziale) è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta (poi ridotto a centottanta dall'art. 1, comma 38, L. n. 92 del 2012) giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione del giudice del lavoro". La questione che la ricorrente ora pone - ha rilevato la Corte - è se la decorrenza di quest'ultimo termine inizi dalla spedizione dell'impugnazione stragiudiziale, oppure, come deciso dalla Corte d'Appello, dallo scadere del termine di sessanta giorni di cui all'art. 6 cit. La questione deve essere risolta nel primo senso. La lettera della disposizione contenuta nell'art. 32, comma 1, cit., che commina l'inefficacia "dell'impugnazione" extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo. L'esigenza di celerità, intesa, come s'è detto, a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, porta a precisare che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell'atto. Deve dunque - ha concluso la Corte - essere affermato il seguente principio di diritto:

"La lettera della disposizione contenuta nell'art. 32, comma 1, L. n. 183 del 2010, modificato dall'art. 1, comma 38, L. n. 92 del 2012 che commina l'inefficacia "dell'impugnazione" extragiudiziale non seguita da tempestiva azione giudiziale, dimostra come dal primo dei due atti debba decorrere il termine per compiere il secondo, e non dalla fine dei sessanta giorni concessi per l'impugnazione stragiudiziale. L'esigenza di celerità, intesa a tutelare l'interesse del datore di lavoro alla certezza del rapporto, indica ancora che il termine debba decorrere dalla spedizione e non dalla ricezione dell'atto".


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