Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

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NUOVO ORIENTAMENTO DELLA SUPREMA CORTE IN MATERIA DI "TUTELA REALE" CONTRO I LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI - Incombe al datore di lavoro, che intenda opporsi alla domanda di reintegrazione, provare che la sua azienda ha meno di 16 dipendenti (Cassazione Sezione Lavoro n. 613 del 22 gennaio 1999, Pres. De Tommaso, Rel. Foglia).

{dropcaps off} REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Giacomo DE TOMMASO - Presidente - Dott. Corrado GUGLIELMUCCI - Consigliere - Dott. Guglielmo SIMONESCHI - Consigliere - Dott. Raffaele FOGLIA - Rel. Consigliere - Dott. Aldo DE MATTEIS - Consigliere -

ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A

sul ricorso proposto da: BARSOTTINI ANGELO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GAETANO CORONARO 94, presso lo Studio dell’avvocato ALFONSO PAGLIARO, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCO PERFETTI, giusta delega in atti; - ricorrente -

contro

GROSS F4 F.LLI PANCONI SNC; - intimata - avverso la sentenza n. 1083/95 del Tribunale di MASSA CARRARA depositata il 20/12/95 R.G. N. 1475/94;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/98 dal Consigliere Dott. Raffaele FOGLIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Domenico NARDI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 22.8.1991, Angelo Barsottini chiedeva al Pretore di Massa che venisse condannata la società Gros F4 dei fratelli Panconi - alle cui dipendenze aveva svolto attività dapprima di magazziniere e poi di impiegato - a reintegrarlo nel suo posto di lavoro dal quale era stato illegittimamente estromesso, con telegramma del 19.7.1991. Costituitosi il contraddittorio, con la costituzione della società convenuta che contestava in radice l'esistenza di un rapporto di lavoro nei confronti dell'attore, il Pretore adìto, con sentenza depositata il 9.3.1994, dichiarava illegittimo il licenziamento impugnato e condannava la società al risarcimento del danno nella misura di sei mensilità dell'ultima retribuzione di fatto, con rivalutazione monetaria ed interessi, sulla somma rivalutata, dal dì del licenziamento al soddisfo, oltre alla rifusione delle spese di lite. Interponeva appello il Barsottini lamentando che il primo giudice non aveva accolto la sua domanda di reintegra avendo ritenuto non provato il fatto che l'impresa avesse più di quindici dipendenti. Aggiungeva l'appellante che la società convenuta non aveva mai contestato tale fatto, la cui deduzione - da parte del ricorrente - doveva ritenersi implicita stante l'avvenuto esperimento del tentativo di conciliazione prescritto dalla legge n. 108 del 1990 in vista dell'azione giudiziaria volta alla reintegrazione nel posto di lavoro. Rilevava, infine, il ricorrente che nel corso del giudizio era stato proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. con il quale era stata invocata la riassunzione, a fronte dalla quale la società non aveva invocato l'inapplicabilità della tutela reale, ma solo l'infondatezza nel merito della pretesa, e che in occasione dell'espletamento del tentativo di conciliazione (cui il primo giudice aveva fatto riferimento nella sentenza) il rappresentante della società (tale Emanuele Panconi) aveva indicato ai funzionari dell' ULPMO i dipendenti in numero di 35 all'epoca dei fatti.

Costituitasi la società appellata, il Tribunale di Massa Carrara, con sentenza depositata il 20.12.1995, confermava integralmente la decisione pretorile, compensando per intero le spese del grado tra le parti. Osservava il Tribunale che di fronte alla allegazione del ricorrente - contenuta nel ricorso introduttivo - secondo cui la società convenuta aveva alle sue dipendenza "ben oltre 40 persone", la società convenuta aveva contestato "tutto quanto esposto e dedotto da parte ricorrente...", sicchè restava esclusivo onere dell'attore provare la consistenza numerica del personale occupato dall'impresa in questione, anche se, nel corso del soprawenuto procedimento d'urgenza la stessa società non aveva rinnovato una tale contestazione. Né il Tribunale riteneva di dover acquisire il verbale di tentata conciliazione intervenuta tra le parti prima dell'inizio della causa: a suo giudizio l'esercizio, da parte del Collegio, del potere istruttorio nella specie sollecitato non era ammissibile, in quanto si sarebbe sostituito in toto all'onere probatorio del ricorrente, cui quest'ultimo non aveva assolto nemmeno in parte. Avverso detta sentenza il Barsottini ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La società intimata non si è costituita.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Col primo motivo - denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 18 della legge 20.5.1970, n. 300, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione - lamenta il ricorrente che erroneamente il Tribunale di Massa Carrara ha ritenuto non raggiunta la prova circa i presupposti di applicabilità dell'art. 18 cit., atteso che la società intimata non aveva mai posto in dubbio la possibilità della tutela reale invocata in giudizio. Con il secondo motivo - deducendosi l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia - si osserva che il Tribunale non avrebbe tenuto in considerazione la circostanza che il ricorso d'urgenza proposto in corso di causa aveva come necessario presupposto - non contestato dalla controparte - il superamento dei minimi numerici prescritti dall'art. 18 cit. Ad avviso del ricorrente, inoltre, la pronuncia di reiezione adottata dal pretore in sede di urgenza costituisce parte integrante della decisione della controversia anche in punto di merito, venendone, quindi, a costituire circostanza non contestata a tutti gli effetti. I motivi, congiuntamente esaminati, appaiono fondati, per quanto si preciserà di seguito, e meritano, pertanto accoglimento.

Conviene premettere, in fatto, che nel caso di specie, il lavoratore aveva affermato sin dall'atto introduttivo che il suo datore di lavoro aveva alle sue dipendenze "ben oltre 40 dipendenti" fondando su tale presupposto la domanda di reintegrazione ai sensi dell'art. 18 della legge n. 300 del l970. Il medesimo presupposto di fatto era posto a base del ricorso d'urgenza proposto in corso di causa, nel quale si reiterava l'istanza di reintegra. Alla prima deduzione la società convenuta si era limitata a contestare "tutto quanto esposto e dedotto da parte ricorrente" senza più replicare sul punto, né in risposta al ricorso d'urgenza, né nel prosieguo del giudizio ordinario. Da tale situazione il Tribunale ha tratto la conseguenza che, non avendo il ricorrente provato la consistenza numerica del personale occupato dalla società convenuta, non vi erano i presupposti per l'applicazione della tutela reale invocata. La questione su cui si incentra la controversia in esame, concerne, appunto, il riparto dell'onere probatorio sui presupposti di applicazione della tutela reale o obbligatoria al licenziamento di cui sia stata già accertata - come nel caso di specie - l’invalidità. Ed infatti un tale onere, in quanto riferito al lavoratore che invochi la tutela reale (secondo quanto affermato dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte, dalla sentenza delle SSUU 4.3.1988, n. 2249 alle più recenti, Cass., 18.4.1995, n. 4337; Cass., 18.3.1996, n. 2268; Cass.,1.10.1997, n. 9606) non può essere concepito in termini eccessivamente rigidi, accontentandosi di ricorrere ad una schematica affermazione quale quella ricorrente in numerose decisioni secondo le quali, trattandosi di un fatto costitutivo inerente alle condizioni dell'azione diretta alla reintegrazione, la dimensione occupazionale dell'impresa dev'essere provata dal lavoratore attore in giudizio. Affermazione che, basandosi esclusivamente su una formale applicazione dell'art. 2697 c.c., rischia di trascurare il dato delle ineguali posizioni delle parti nel processo, in relazione alla differente disponibilità degli elementi di prova che ciascuna di esse ha in concreto, in base alla sua posizione nel rapporto.

Tale rischio è, invero, avvertito da questa Corte allorchè ammette che "al di là delle regole sulla ripartizione dell'onere della prova, ben può la decisione, comunque, fondarsi su ogni elemento di giudizio, una volta acquisito al processo, anche attraverso prove disposte di ufficio e quale che sia la parte che l'abbia fornita, tenuta o non tenuta (Cass., nn. 1202/1985; 2941/1990; 6644/1990). La medesima preoccupazione ha indotto, in altre occasioni, questa Corte ad ammettere che la prova del requisito dimensionale ben può essere desunta dal giudice in base al comportamento processuale del datore di lavoro che non muova contestazioni al riguardo (Cass. 16.4.1991, n. 4048; Cass., 5.2.1993, n. 1429), sembrando eccessivo risolvere il problema nei termini meccanici del brocardo "actore non probante reus absolvitur". Da qui potrebbe dedursi che, ancorchè la mera allegazione del requisito dimensionale non costituisce prova, tuttavia, trattandosi di presupposto costitutivo della fattispecie legale, per di più necessariamente risultante da una documentazione (ad es. libri paga e matricola) la cui tenuta è dalla legge espressamente imposta a carico del datore di lavoro, il giudice potrà supplire all’inerzia delle parti, ad es. ordinandone l'esibizione. A questa stregua- e con riferimento al caso di specie in cui la società convenuta si è limitata ad una unica iniziale contestazione non corredata da elementi documentali dei quali certamente doveva essere in possesso - va valutato il comportamento del datore di lavoro, tenendo presente il disposto dell'art. 416, c.3 c.p.c. secondo cui nella memoria di costituzione "il convenuto deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della domanda, e deve proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare.

Questa disposizione viene costantemente interpretata, da una parte, nel senso che una contestazione del genere, espressa in termini di rifiuto totale delle asserzioni del ricorrente non implica ammissione, da parte del convenuto, della sussistenza dei fatti allegati dalla controparte (Cass. nn. 2551/85; 6339/87; 7447/94), e, dall'altra, che 1'onere di tempestiva, ossia immediata, difesa e prova non riguarda i fatti costitutivi del diritto soggettivo affermato dall'attore, e che la negazione di questi fatti da parte del convenuto costituisce "mera difesa" non soggetta a limiti temporali, in quanto il loro difetto è rilevabile d'ufficio (Cass. 18.3.1996, n.2268; Cass., 13.12.1986, n.7476), con la conseguenza che il requisito delle dimensioni occupazionali dell' impresa è in ogni caso rilevabile dal giudice, anche d'ufficio, in relazione alla situazione sostanziale dedotta in giudizio (Cass., 18.3.1996, n. 2268). Il che, ancora una volta mostra come istanze equitative- direttamente collegate alle posizioni ineguali delle parti nel processo del lavoro- finiscono col condizionare l'applicazione di una distinzione, pur concettualmente sicura, tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato.

Per risolvere la questione riproposta nel presente giudizio sembra pertanto necessario un approfondimento dell'analisi che non può prescindere dai contributi dottrinari in tema. Come è noto, il problema del riparto degli oneri probatori sul punto delle dimensioni occupazionali dell'impresa è stato affrontato da buona parte degli studiosi ricercando quale dei due regimi legali, quello reale o quello obbligatorio possa definirsi generale e quale invece speciale. Da una parte si ritiene generale il regime obbligatorio, ma dall'altra ci si interroga sulla base di quale dato normativo - ricavabile dagli artt. 18 dello statuto dei lavoratori e 2 della legge n. 108 del 1990 - è consentito ritenere che il licenziamento illegittimo solo eccezionalmente può essere sottoposto al regime "reale". Non manca chi rileva che il legislatore, lungi dal sancire la generale operatività del regime di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966, per poi definire, in particolare il campo di vigenza dei rimedi previsti dall'art. 18 dello statuto del lavoratori, ha invece previsto, in positivo, sia i presupposti di applicabilità della tutela obbligatoria, sia quelli della tutela reale, provvedendo a rendere omogenei i referenti necessari per l'una e per l'altra tutela, sia da un punto di vista soggettivo (nel senso che entrambe le normative prescindono dalla natura imprenditoriale o meno del datore di lavoro), sia da un punto di vista oggettivo (dal momento che la dimensione organizzativa di riferimento è in entrambi i casi la medesima e cioè a dire la complessiva organizzazione del datore di lavoro). A ben vedere, un tale approccio rischia di rivelarsi fuoniante, o comunque inidoneo a fornire una risposta "stabile", dal momento che, come spesso accade, allorchè, in un contesto di oggettiva incertezza si debba individuare quale sia la regola e quale l'eccezione, la risposta, in ultima analisi finisce col dipendere anche da giudizi di valore, inevitabilmente influenzati dal momentaneo clima "storico-politico", favorevole ora a privilegiare la stabilità del rapporto di lavoro (per le sue implicazioni in termini di tutela della professionalità e della personalità del lavoratore), inteso come obiettivo prioritario da perseguire, ora ad assecondare piuttosto le esigenze di flessibilità dettate da una situazione economica generale che reclama interventi di sostegno. A questo punto non è inopportuno tornare al dato normativo di riferimento, rileggendo per esteso il nuovo art.l8,c.1 come novellato dall'art.1 della legge n. 108/90: "Ferme restando l'esperibilità delle procedure previste dall'art.7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell'articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, owero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

Tali disposisizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro". L'articolo 2 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ricomprende nel regime di tutela obbligatoria (già contemplato dalla legge 15 1uglio 1966, n. 604) i licenziamenti individuali intimati dai datori di lavoro - imprenditori o non imprenditori - che occupano alle loro dipendenze sino a quindici dipendenti (o sino a cinque dipendenti, se imprenditori agricoli), nonché quelli che occupano sino a sessanta dipendenti, semprechè non occupino più di quindici dipendenti nell'ambito di uno stesso comune, ovvero nell'ambito di ciascuna unità produttiva. La tutela reale non trova applicazione, altresi, nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori "che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindàcale, culturale, di istruzione owero di religione o di culto" (art.4, c.l). Entrambe le tutele, sia quella reale che quella obbligatoria, non si applicano nei confronti dei lavoratori domestici, né di quelli ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici, semprechè non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto di lavoro ai sensi dell'art.6 del d.l. 22 dicembre 1981, n.791, convertito, con modificazioni nella legge 26.2.1982, n. 54 (art.4). Lo stesso vale nei confronti dei lavoratori assunti in prova, e dei dirigenti, in base all'art. 10 della legge n. 604 del 1966 tuttora in vigore. In altra parte della legge n. 108/1990 la scelta tra le due tutele viene operata, invece, con riferimento al particolare vizio da cui è affetto il licenziamento (ipotesi del licenziamento discriminatorio: art. 3).Orbene, esclusa la ricorrenza nella controversia in esame, di quest'ultima ipotesi, come pure delle ipotesi in cui il regime del licenziamento dipende dalla qualità soggettiva del lavoratore interessato, è agevole constatare che i presupposti per l'applicabilità della tutela reale o di quella obbligatoria riguardano esclusivamente, la natura (industriale o agricola) dell'impresa, le finalità tipiche dell'attività economica, nonchè le dimensioni occupazionali dell'impresa anche con riferimento alle sue eventuali articolazioni organizzative o distribuzione su territori diversi, aspetti, tutti certamente rientranti nella "naturale" consapevolezza dell'imprenditore, trattandosi di connotazioni sue proprie, e non altrettanto sicuramente conosciute o percepibili dal singolo lavoratore dipendente. Questo dato, incontrovertibile, ha condizionato fortemente la giurisprudenza sopra menzionata, attenuando progressivamente la portata dei principi da cui essa ha preso le mosse. Dal riesame dell'impianto normativo emerge chiaramente il fondamento su cui ciascuno dei regimi si fonda: esso si rinviene prevalentemente nella natura o nella dimensione dell'impresa, o talora, nella qualità o nella posizione professionale del lavoratore licenziato.

Dal disposto dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori (sia prima che dopo la novella del 1990) si ricava come la diversità di quei regimi trova la sua ragione, il più delle volte, non in fatti riferibili al lavoratore (salvo che si tratti di categorie particolari quali i dirigenti, o i pensionati... ), ma piuttosto nella natura (agricola o industriale, operante o meno per fini di lucro......) o nella dimensione occupazionale dell'impresa la quale, in quanto espressiva anche di una diversa capacità di sostenere gli oneri di una tutela reale o obbligatoria, (senza comprometterne le capacità produttive e, quindi, occupazionali) giustifica questo o quel regime (in tal senso v. anche la Corte costituzionale: sent. nn. 55/1974; 152/1975; 189/1975; 2/1986; 240/1993; 44/1996). Il dato dimensionale dell'impresa resta dunque la "ragione giustificatrice" del regime di tutela reale, assolutamente prevalente, quale discrimine rispetto al regime di tutela obbligatoria, laddove perde rilevanza l'altro elemento, tradizionalmente individuato dalla"fiduciarietà" del rapporto (il quale, ad es. nelle unità produttive con meno di 16 dipendenti, non osta all'operatività della tutela reale, ove l'impresa, nel suo complesso occupi più di 60 dipendenti). Tale regime, quindi, riferito dalla legge esclusivamente alle dimensioni occupazionali (che, come indicano i lavori preparatori, risultò criterio più idoneo per "misurare" la capacità dell'impresa di sostenere i "costi" di una tutela reale) dipende esclusivamente da fatti la cui "disponibilità" appartiene, di norma, esclusivamente al soggetto stesso cui si riferiscono e cioè l'impresa (la quale è in grado di fornirne i riscontri reali, utilizzando tutta l'ampia documentazione che la legge le impone di tenere). Di fronte a tale situazione appare irrazionale concepire un onere probatorio assoluto ed esclusivo a carico del lavoratore al quale di regola sfuggono i dati concernenti le dimensioni, anche esterne, rispetto all'unità produttiva in cui esso operava. Una ulteriore conferma di questa "lettura" si trae dal secondo comma del nuovo art. 18 il quale, nel precisare i criteri di computo del numero degli occupati ai fini dell’operatività della tutela reale, vi ricomprende, ad es. i lavoratori assunti con contratto di formazione, o quelli assunti a tempo parziale, computandoli "...... per la sola quota di orario effettivamente svolto.....", e al contempo esclude dal computo "... il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale": tutte realtà, queste, delle quali evidentemente solo il datore può avere una compiuta conoscenza. Sembra, allora, da escludere che l'onere probatorio - compiutamente inteso - sulla dimensione occupazionale, ai fini della questione presente, possa incombere, nella sua pienezza di contenuti, sul lavoratore, al punto che una generica contestazione da parte del datore di lavoro possa essere suffficiente a negare l'applicabilità di una disciplina che la legge stessa detta su misura dell'impresa, diversamente opinando occorrerebbe, da un lato, rilevare che in tal caso verrebbe premiata una "reticenza" ingiustificata del datore di lavoro, in dispregio dei principi di lealtà e parità che sono alla base del processo, e, ancora più a monte, ritenere il lavoratore, piuttosto che il datore, in grado (e,quindi, onerato) di fornire una prova attinente a fatti che non rientrano nella sua sfera di conoscenza.

Una volta riscontrata la fragilità della tesi che fonda l'onere probatorio a carico del lavoratore che invoca la tutela reale sulla natura eccezionale di questa, appare più corretta la posizione - pur espressa da autorevole dottrina - che muove dalla ricostruzione dell'azione di impugnazione del licenziamento come azione di adempimento e/o di responsabilità per inadempimento: il datore di lavoro che pone in essere un licenziamento al di fuori delle condizioni richieste dalla legge si rende responsabile di un inadempimento alle obbligazioni assunte al momento della costituzione del rapporto. Fatti costitutivi necessari e suffcienti a reggere gli effetti giuridici (reintegrazione e risarcimento, riassunzione o indennità) che il lavoratore mira a conseguire attraverso la c.d. azione di impugnativa di licenziamento sono la pregressa esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e la sua interruzione a seguito dell'iniziativa della controparte. Fatti impeditivi degli effetti giuridici che il lavoratore mira a conseguire sono la sussistenza di una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento: la regola di ripartizione dell'onere della prova di cui all'art. 5 della legge n. 604 del 1966 ben lungi dall'essere una disposizione eccezionale introdotta a favore del lavoratore, non è altro che applicazione alla responsabilità del datore di lavoro della regola generale dettata dall'art. 1218 c.c. in tema di onere della prova nella responsabilità contrattuale. Ed infatti, in base ai principi generali, la conseguenza avrebbe dovuto essere quella del risarcimento di tutti i danni subiti dalla controparte (art. 1223 c.c.).

L'art.8 della legge n. 604 del 1966, prevede invece una forte attenuazione delle conseguenze a carico della parte inadempiente ed è allora giustificato porre a carico di colui che pretende di essere esonerato da quelle che sarebbero le comuni sanzioni derivanti da un inadempimento (e cioè da quanto previsto dall'art. 18 della legge n. 300 del 1990) 1'onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni che determinano la riduzione degli effetti restitutori e risarcitori. In conclusione, può ritenersi che, pur essendo entrambe le discipline previste rispettivamente dagli artt. 8 della legge n. 604/66 e 18 della legge n. 300/70, speciali rispetto alla disciplina generale in tema di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., Ia disciplina dell'art. 18 è più vicina (ancorchè non identica) ai principi generali in tema di responsabilità contrattuale, mentre la più blanda disciplina dell'art. 8 si distacca fortemente dal rispetto di quei principi. Si può, quindi, affermare che grava sul datore di lavoro l'onere di eccepire e provare l'esistenza dei requisiti occupazionali che impediscono l'applicazione della disciplina generale dell'art. 18 st.lav., il che appare altresi conforme ai criteri di facilità e vicinanza della prova, tanto più evidenti in relazione agli specifici obblighi di documentazione imposti dalla legge al datore di lavoro in merito al personale alle sue dipendenze. Da quanto precede consegue l'accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata con rinvio della causa ad altro giudice (che si degna nel Tribunale di Pisa) il quale si atterrà ai principi più sopra enunciati, prowedendo anche alle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, al Tribunale di Pisa.

Così deciso in Roma, il 25.9.1998

Il Presidente F.to Giacomo De Tommaso

Il Consigliere estensore F.to Raffaele Foglia

Depositata in Cancelleria il 22 gennaio 1999


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