Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

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L'ESISTENZA DEL DANNO MORALE DA DIFFAMAZIONE DEVE ESSERE PROVATA - Anche mediante presunzioni semplici (Cassazione Sezione Terza Civile n. 23206 del 13 novembre 2015, Pres. Chiarini, Rel. Vincenti).

Il quotidiano "Il Giornale", nel 2004 ha pubblicato la notizia che un magistrato della Direzione Nazionale Antimafia era stato sottoposto a procedimento disciplinare perché ritenuto responsabile di collusioni con la criminalità organizzata. Il magistrato ha chiesto al Tribunale di Milano la condanna dell'autore dell'articolo e dell'editore al risarcimento del danno non patrimoniale derivatogli della pubblicazione, sostenendo l'assoluta falsità della notizia e facendo presente le gravi conseguenze derivategli in termini di sofferenza e discredito sociale nell'ambiente di lavoro. Il Tribunale ha escluso l'esistenza di giustificazioni, stante la falsità della notizia e ha condannato i convenuti al risarcimento del danno morale determinandone l'importo equitativamente in misura di euro 40.000. Il giornalista e l'editore hanno proposto appello, sostenendo, tra l'altro, che non era stata data la prova del danno. La Corte milanese ha rigettato l'appello affermando, tra l'altro, che il danno, trattandosi di un reato, doveva ritenersi sussistente "in re ipsa", senza necessità di prova. I condannati hanno proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro che la decisione impugnata aveva violato le regole probatorie.

La Suprema Corte (Sezione Terza Civile n. 23206 del 13 novembre 2015, Pres. Chiarini, Rel. Vincenti) ha rigettato il ricorso, correggendo la motivazione della sentenza nella parte concernente l'esistenza del danno. Non è condivisibile - ha rilevato la Cassazione - l'affermazione in iure della Corte di merito (mutuata da Cass., 10 maggio 2001, n. 6507) per cui la prova del danno non patrimoniale derivante dalla lesione della reputazione è "in re ipsa poiché si realizza una perdita analoga a quella indicata dall'art. 1223 c.c. costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore della persona umana alla quale il risarcimento deve essere commisurato". Secondo l'attuale consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte deve escludersi in ogni caso la sussistenza di un danno non patrimoniale in re ipsa, sia che esso derivi da reato (Cass., 12 aprile 2011, n. 8421), sia che sia contemplato come ristoro tipizzato dal legislatore (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; Cass., 15 luglio 2014, n. 16133; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo: Cass., 26 maggio 2009, n. 12242), sia, infine, che derivi dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come tali costituzionalmente garantiti, e, tra questi, proprio il diritto all'onore ed alla reputazione (Cass., 18 novembre 2014, n. 24474). Ciò in quanto, con il superamento della teorica del c.d. "danno evento" (elaborata compiutamente dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, ma oggetto di revirement operato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994), il danno risarcibile, "nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell'art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell'illecito aquiliano, non si identifica con la lesione dell'interesse tutelato dall'ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione" (così la citata Cass. n. 16133 del 2014). Nel sottosistema della responsabilità civile - ha affermato la Corte - al risarcimento del danno non può ascriversi una funzione punitiva; ne consegue che la sussistenza del danno non patrimoniale, quale conseguenza di una lesione suscettibile di essere risarcita, deve essere oggetto di allegazione e di prova, sebbene a tale ultimo fine possano ben utilizzarsi anche le presunzioni semplici. Nella specie, l'affermazione (erronea) del giudice del merito sul danno non patrimoniale in re ipsa - ha osservato la Corte - è, tuttavia, rimasta su un piano astratto, giacché, come si evince dallo sviluppo della motivazione della sentenza impugnata, le conseguenze della lesione della reputazione sono state vagliate sulla scorta delle allegazioni di parte attrice sul discredito sociale e sulla sofferenza da essa subito nel proprio ambiente di lavoro e riscontrate in base ad un ragionamento probatorio fondato su presunzioni semplici, dandosi concreta rilevanza alla posizione del diffamato (magistrato), alla sua precipua attività professionale (svolta "all'interno della D.N.A.") ed al contenuto specifico dell'articolo giornalistico (che additava il magistrato "come colpevole di gravi reati e colluso con la mafia").


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