Legge e giustizia: venerdì 19 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

E' NULLO PERCHE' RITORSIVO IL LICENZIAMENTO INTIMATO A UN IMPIEGATO PER AVERE RIVOLTO, AI VERTICI AZIENDALI, IN UNA RELAZIONE INTERNA, CRITICHE SU ATTI DI GESTIONE - Diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione e dalla normativa europea (Cassazione Sezione Lavoro n. 24648 del 3 dicembre 2015, Pres. Roselli, Rel. Tria).

Fulvio E., dipendente della S.p.a. Going, avente meno di 16 dipendenti, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e licenziato con l'addebito di infedeltà per avere predisposto e consegnato a uno dei consiglieri di amministrazione della società, su richiesta del medesimo, una relazione contenente accuse di infedeltà rivolte ai vertici dell'azienda e ritenute dagli stesse false e gravemente denigratorie. Il lavoratore si è rivolto al Tribunale di Milano sostenendo che le valutazioni espresse nella relazione rientravano nell'esercizio del diritto di critica e chiedendo la dichiarazione di nullità del recesso in quanto avente natura ritorsiva. Il Tribunale avendo esclusa la portata diffamatoria dello scritto, ha ritenuto che il recesso sia stato operato esclusivamente per motivo di ritorsione, e ha dichiarato nullo il licenziamento disponendo la reintegrazione e il risarcimento a termini dell'art. 18 St. Lav., applicabile stante la nullità del provvedimento.  Il Tribunale ha anche condannato l'azienda al risarcimento del danno per ingiuriosità del licenziamento osservando che questo era stato preannunciato con varie lettere dirette a terzi. La decisione è stata confermata, in grado di appello, dalla Corte di Milano che ha ritenuto legittimo il comportamento del lavoratore, avente qualifica direttiva, in quanto da una valutazione complessiva della sua relazione emergeva la sua preoccupazione di trovarsi esposto a prassi che lo mettevano in imbarazzo di fronte ai fornitori o che ponevano in cattiva luce il gruppo aziendale. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte milanese per nullità e per violazione di legge.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 24648 del 3 dicembre 2015, Pres. Roselli, Rel. Tria) ha accolto il ricorso e, non essendo necessari altri accertamenti in fatto, ha deciso la causa nel merito con la dichiarazione di nullità del licenziamento ed ogni conseguente pronuncia a termini dell’art. 18 St. Lav. La Corte ha richiamato la sua consolidata giurisprudenza secondo cui il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta - assimilabile a quello discriminatorio - costituisce l'ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. 8 agosto 2011, n. 17087); il divieto di licenziamento discriminatorio – sancito dall'art. 4 della legge n. 604 del 1966, dall'art. 15 della legge n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della legge n. 108 del 1990 – è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l'ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa, essendo necessario, in tali casi, dimostrare, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall'intento ritorsivo (Cass. 18 marzo 2011, n. 6282, in senso analogo: Cass. 27 febbraio 2015, n. 3986). A ciò può aggiungersi che – ha osservato la Cassazione – la Corte milanese non ha neppure considerato che il giudice nazionale, laddove vengano in considerazione eventuali profili discriminatori o ritorsivi nel comportamento datoriale, non può fare a meno di effettuarne la valutazione sia in base all'art. 3 Cost. sia in considerazione degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, a partire dalla introduzione dell'art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam del 1997. Tale processo, che è poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione - pur non necessaria, in presenza dell'art. 3 Cost., (Corte Cost. sentenza n. 109 del 1993) - come discriminatorie (in modo diretto o indiretto), soprattutto a partire dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 215 e D.Lgs. n. 216 del 2003 con la previsione di un particolare regime dell'onere probatorio.


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