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Legge e giustizia: sabato 27 aprile 2024
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NON PUO' ATTRIBUIRSI AL GIORNALISTA IL COMPITO DI PURGARE IL CONTENUTO DELLE DICHIARAZIONI OFFENSIVE RESE DA UN PERSONAGGIO NOTO - Notizia di cronaca (Cassazione Sezione Quinta Penale n. 6911/16 udienza 6 ottobre 2015, Pres. Nappi, Rel. Miccoli).
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La
questione della punibilità del giornalista il quale in un'intervista o,
comunque, in un qualsivoglia resoconto riporti dichiarazioni altrui si pone
solo quando
le dichiarazioni riportate dal giornalista integrino gli estremi della
diffamazione. Non si pone, infatti, l'esigenza di distinguere la responsabilità
del giornalista da quella del dichiarante, se le dichiarazioni riferite, benché
offensive, non siano punibili perché rilasciate nel corretto esercizio del
diritto di critica, che compete a qualsiasi cittadino. Il problema si pone
quando il giornalista diffonda dichiarazioni altrui che integrano gli estremi
di un reato e che di per sé non sarebbero idonee alla consumazione dell'illecito
penale senza quella diffusione che proprio all'opera del giornalista è imputabile.
In questa prospettiva, dunque, non pare possa dubitarsi che, in applicazione dell'art.
110 c.p., sia configurabile il concorso nel delitto di diffamazione a carico
del giornalista, che contribuisce in misura determinante alla consumazione del
delitto. Ciò non di meno è possibile distinguere, sia sotto il profilo
soggettivo sia sotto il profilo oggettivo, la posizione del giornalista da
quella dell'autore delle dichiarazioni diffamatorie da lui riferite. Può
innanzitutto accadere che le dichiarazioni riferite siano punibili a titolo di
diffamazione in quanto false, in quanto non corrispondenti ai fatti. E in
questo caso non potrà certamente essere ritenuto responsabile di diffamazione
il giornalista che sia rimasto vittima di un involontario infortunio per aver
pubblicato dichiarazioni che, pur avendo resistito a tutte le più serie
verifiche di attendibilità, siano risultate false. Si verserà, infatti, in un
caso di errore sul fatto costituente reato determinato dall'altrui inganno; un
errore che, a norma dell'art. 48 c.p., esclude la punibilità della persona
ingannata. Tuttavia è evidente che questa prospettiva di non punibilità non è
percorribile quando il giornalista riferisca dichiarazioni la cui punibilità
per diffamazione non dipende dal difetto di veridicità, bensì dal difetto del
requisito della "continenza". La posizione del giornalista non potrebbe essere,
quindi, distinta da quella dell'autore delle dichiarazioni, quando queste
consistano di insulti ovvero di quelle espressioni che la giurisprudenza definisce
"gratuite", nel senso di non necessarie all'esercizio del diritto critica, in
quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti. In linea di massima,
quindi, può risultare esente da responsabilità il giornalista che abbia
riportato dichiarazioni altrui solo quando la punibilità a titolo di
diffamazione di tali dichiarazioni dipenda da una loro ben dissimulata falsità,
che abbia resistito alle necessarie verifiche di attendibilità, non quando le
dichiarazioni siano diffamatorie in sé, per le espressioni adoperate o per la
palese falsità delle accuse. Può anche accadere, peraltro, che la veridicità
delle dichiarazioni diffamatorie riportate dal giornalista e la stessa
specifica offensività delle espressioni del dichiarante risultino in qualche
misura irrilevanti. E ciò si verifica quando lo stesso fatto che la dichiarazione
sia stata resa costituisca un "evento" sia un fatto di cui il pubblico ha
interesse e diritto a essere informato. Le pubbliche dichiarazioni di chi
ricopra importanti incarichi istituzionali, ad esempio, vanno di regola
riferite quale che ne sia il contenuto, perché la notizia di cronaca consiste
proprio nel riferire la dichiarazione in sé, non nel riferire i fatti in essa rappresentati.
Tuttavia la possibilità di distinguere in questi casi la responsabilità del
giornalista da quella dell'autore della dichiarazione riferita va verificata in
concreto. Non si possono indicare criteri astratti che valgano a scindere
sempre e comunque le due responsabilità. Occorre tener conto dell'effettivo
grado di rilevanza pubblica dell'evento dichiarazione. E, per verificare se
davvero il giornalista si sia limitato a riferire l'evento piuttosto che
divenire strumento della diffamazione, occorre considerare in quale contesto
valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la
plausibilità e l'occasione di tali dichiarazioni, quali le ragioni e la
credibilità del dichiarante. Né è irrilevante il contesto comunicativo della stessa
dichiarazione riferita, che può risultare accettabile in un determinato ambito istituzionale,
come quello parlamentare (art. 68 Cost.) o quello giudiziario (art. 598 c.p.),
ma può diventare strumento di un'autonoma diffamazione punibile se diffuso
sulla stampa senza le necessarie cautele espressive. In definitiva, per
distinguere il lecito dall'illecito, occorre accertare se il giornalista abbia
assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto del
pubblico dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione
diffamatoria, che agisce contro il diffamato.
Sono state le Sezioni Unite a delineare
in materia un importante arresto giurisprudenziale, con il quale è stato abbandonato
l'indirizzo giurisprudenziale piuttosto rigoroso, fino a quel momento
prevalente, secondo il quale la pubblicazione di un'intervista, dal contenuto
diffamatorio, rilasciata da un terzo al giornalista, non solleva quest'ultimo
dalla responsabilità per il delitto di diffamazione quando non siano stati
rispettati i requisiti della verità, dell'interesse sociale della notizia e della
continenza; si è infatti osservato che la casistica offre esempi eclatanti in
cui uno dei tre requisiti suddetti, e cioè l'interesse sociale della notizia,
può acquistare un'importanza tale da importare anche la prevalenza - nel
controllo della sussistenza della scriminante del diritto di cronaca - sugli
altri due. Ciò può verificarsi - hanno osservato le Sezioni Unite - quando un
soggetto, che occupa una posizione qualificata nell'ambito della vita politica,
sociale, economica, scientifica, culturale, rilasci dichiarazioni, pure in sé
diffamatorie, nei confronti di altro soggetto, la cui posizione sia altrettanto
rilevante negli ambiti sopra indicati. In tal caso è la dichiarazione
rilasciata dal soggetto intervistato che crea di per sé la notizia, indipendentemente
dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate.
Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere
pubblicata perché soddisfa quell'interesse della collettività all'informazione
che deve ritenersi indirettamente protetto dall'art. 21 Cost.. Ciò perché la
notizia è costituita dal fatto in sé delle dichiarazioni del soggetto
qualificato, risultando l'interesse del pubblico ad apprenderla del tutto indipendente
dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza del
linguaggio adottato: pretendere che il giornalista intervistatore controlli la
verità storica del contenuto dell'intervista potrebbe comportare una grave
limitazione alla libertà di stampa; pretendere che egli si astenga dal
pubblicare l'intervista perché contenente espressioni offensive ai danni di
altro soggetto noto, significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare
l'opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l'altro attribuirsi al
giornalista il compito di purgare il contenuto dell'intervista dalle
espressioni offensive, sia perché gli verrebbe attribuito un potere di censura
che non gli compete, sia perché la notizia, costituita appunto dal giudizio non
lusinghiero, espresso con parole forti da un soggetto noto all'indirizzo di
altro soggetto noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato. In
casi del genere, allora, il problema che si pone attiene alla qualificazione da
dare al soggetto che rilascia l'intervista, al fine di accertare se
effettivamente trattasi di personaggio noto e affidabile, le cui dichiarazioni
siano comunque meritevoli di essere pubblicate, poiché in caso di posizione di
rilievo dell'intervistato vi è l'interesse della collettività ad essere
informata del suo pensiero sull'argomento che forma oggetto dell'intervista
medesima. Detta valutazione ovviamente non può essere sganciata dall'effettivo
grado di rilevanza pubblica dell'evento "dichiarazione", considerando poi - al
fine di verificare se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l'evento
piuttosto che a divenire strumento della diffamazione - in quale contesto
valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la
plausibilità e l'occasione di tali dichiarazioni. Si deve, altresì, accertare,
attraverso una puntuale interpretazione dell'articolo, se il giornalista abbia
assunto una posizione imparziale, limitandosi a riportare alla lettera le
dichiarazioni del soggetto intervistato, sempre però che il fatto "in sé" dell'intervista,
in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e
al più generale contesto dell'intervista presenti profili di interesse pubblico
all'informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo. Diversamente,
in mancanza di tutte queste condizioni, il giornalista diventa un dissimulato coautore
della dichiarazione diffamatoria e trova applicazione la normativa sul concorso
delle persone nel reato di cui all'art. 110 cod. pen..
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