Un appesantimento (per via giurisprudenziale) dell'apparato sanzionatorio che grava sull'attività del cronista giudiziario, è stato evitato dalle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte con la sentenza n. 3727 del 25.2.2016 (Pres. Salmè, Rel. Amendola) concernente la portata dell'art. 684 c.p. che punisce con la pena dell'arresto sino a 30 gg. o con l'ammenda da euro 51,00 a euro 258,00 la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale. Si tratta di una contravvenzione di minima entità che in concreto non ha seriamente ostacolato l'attività giornalistica. La situazione è però peggiorata quando ha cominciato a porsi il problema della portata dell'art. 684 c.p., se si tratti cioè di un illecito monoffensivo o plurioffensivo. Nella seconda ipotesi il giornalista, immutata restando la sanzione penale potrebbe essere convenuto in giudizio davanti al giudice civile per rispondere del risarcimento del danno subito da una persona coinvolta in un processo penale di cui sia stata data arbitrariamente notizia. Data l'importanza della questione, essa è stata assegnata alle Sezioni Unite, che si sono pronunciate con la predetta sentenza in senso favorevole al giornalista. Si tratta di stabilire - hanno affermato le Sezioni Unite - se, accanto all'interesse dello Stato al corretto funzionamento dell'attività giudiziaria, l'art. 684 cod. pen. tuteli anche le parti in vario modo coinvolte nel processo, di talché, a prescindere dalla concorrenza o meno di una lesione della riservatezza o di una diffamazione ai loro danni, la commissione del reato le abiliti all'attivazione di un'autonoma pretesa risarcitoria fondata sul fatto in sé che vi sia stata pubblicazione arbitraria di atti di un processo penale che le riguardi: nello specifico, che, chiusa la fase delle indagini preliminari, vi sia stata riproduzione testuale di un atto, in spregio al divieto sancito dal secondo e dal terzo comma dell'art. 114 cod. proc. pen.. Orbene, come ricordato nell'ordinanza di rimessione, sul carattere plurioffensivo o meno del reato di cui all'art. 684 cod. pen. si registrano nella giurisprudenza di legittimità due differenti orientamenti, di talché proprio in vista della composizione del contrasto, nonché in ragione del carattere di massima di particolare importanza della questione, si è ritenuto opportuno che sulla stessa si pronunciassero queste sezioni unite. Secondo un indirizzo, che sembra prevalente nella giurisprudenza civilistica, la fattispecie criminosa in esame "costituisce, pacificamente, reato plurioffensivo ... in quanto diretto a tutelare, nella fase istruttoria, la dignità e la reputazione di tutti coloro che, sotto differenti vesti, partecipano al processo", oltreché a garantire l'interesse dello Stato al retto funzionamento dell'attività giudiziaria: in tal senso non solo la recentissima Cass. civ. 31 ottobre 2015, n. 838, ma anche, in motivazione, Cass. civ. 17 luglio 2013, n. 17602. Nella medesima prospettiva è la giurisprudenza delle sezioni penali (cfr. Cass. pen. 12 aprile 2013, n. 17051; Cass. pen. 8 gennaio 2013, n. 473; Cass. pen. 28 ottobre 2004, n. 42269; Cass. pen. 19 febbraio 1990, n. 2377), nonché quella della Corte costituzionale la quale, sia pure in tempi alquanto risalenti - e con riferimento al contesto normativo antecedente alla riforma del 1988 - ha a più riprese affermato il carattere plurioffensivo della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 684 del codice penale (cfr. Corte cost. n. 457 del 1987; Corte cost. n. 18 del 1966). In senso contrario si è invece espressa Cass. pen. 17 marzo 1981, n. 2320, che ha individuato l'oggettività giuridica del reato di cui all'ad 684 cod. pen. unicamente nell'interesse dello Stato al normale funzionamento dell'attività giudiziaria mediante la segretezza della fase istruttoria al fine di impedire l'inquinamento della prova o la fuga di compartecipi, nonché, sul versante civilistico, Cass. civ. 19 settembre 2014, n. 19746, che ha escluso ogni attinenza della tutela penale accordata dall'art. 684 cod. pen. alla sfera di riservatezza dell'indagato o dell'imputato, circoscrivendola alla sola protezione delle esigenze di giustizia inerenti al processo penale nella delicata fase di acquisizione della prova. In tale ambito appare ascrivibile anche Cass. pen. n. 32846 del 2014, che, ravvisando le ragioni del divieto di cui al comb. disp. degli artt. 624 cod. pen. e 114 cod. proc. pen. non solo e non tanto nella tutela dell'indagato, ma nella salvaguardia dei principi fondamentali del processo accusatorio, sembra postulare una garanzia indiretta, e quindi di mero fatto, degli interessi delle parti coinvolte nel processo, non essendo la loro riservatezza il bene giuridico avuto direttamente di mira dalla norma. Orbene - hanno concluso le Sezioni Unite - tra i riferiti orientamenti, ritengono queste sezioni unite che debba essere preferito quello che esclude il carattere plurioffensivo del reato di cui all'art. 684 cod. pen., conseguentemente negando la legittimazione del privato a far valere una pretesa risarcitoria in dipendenza della sola violazione della predetta norma, in assenza, cioè, di una concreta lesione alla sua reputazione e alla sua riservatezza.
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