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Legge e giustizia: sabato 20 aprile 2024
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ALLE SEZIONI UNITE L'ABUSO DEL PROCESSO -
Contrasto
giurisprudenziale nella Sezione Lavoro (Cassazione Sezione Lavoro ordinanza n. 1251 del 25 gennaio 2016, Pres. Macioce,
Rel. Blasutto).
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Con ricorso al Giudice del lavoro
di Torino depositato il 26 marzo 2009, Giovanni A. ha chiesto la condanna della ex datrice di
lavoro Fiat Auto s.p.a. al pagamento di una somma a titolo di ricalcolo
dell'indennità premio di fedeltà con inclusione dei compensi percepiti in modo continuativo.
Il Tribunale di Torino ha dichiarato l'improponibilità della domanda, in quanto
il ricorrente aveva agito in precedenza chiedendo la rideterminazione del TFR
per incidenza sulla relativa base di calcolo delle voci retributive percepite
in via continuativa. Secondo il Tribunale i crediti fatti valere nelle due
cause, derivando dalla cessazione del medesimo rapporto di lavoro, avrebbero
potuto e dovuto essere azionati congiuntamente, alla luce della sentenza n. 23726/2007
delle Sezioni Unite della Corte di Cessazione; il ricorrente aveva invece indebitamente
frazionato il credito in una pluralità di domande. La Corte di appello torinese,
mutando il proprio precedente orientamento in materia, ha accolto l'appello
proposto dal lavoratore, osservando che il principio della infrazionabilità
della domanda, ribadito anche da Cass. n. 26961/2009, 15476/2008, 28719/2008,
opera all'interno di un rapporto obbligatorio ritenuto unico in senso proprio,
mentre dal rapporto di lavoro discende una pluralità di obbligazioni, ognuna
con una propria specifica fonte, di natura legale oppure contrattuale,
concernente istituti economici diversi. L'azienda ha proposto ricorso per
cassazione.
La Suprema Corte, (Sezione Lavoro
n. 1251 del 25 gennaio 2016 Pres. Macioce, Rel. Blasutto) ha rilevato
l'esistenza nell'ambito della Sezione Lavoro di un prevalente orientamento
giurisprudenziale nel senso che debba essere contrastato l'abuso del processo.
L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere
giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale,
applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere,
nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificatosi in
obblighi di informazione e di avviso) nonché volto alla salvaguardia
dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (principio poi
ripreso dalla sentenza delle S.U. n. 23726 del 2007). Tuttavia - ha affermato
la Corte - da tali principi non sembra possa argomentarsi alcuna possibilità di
ricondurre ad unitarietà i molteplici crediti retributivi o risarcitori
derivanti da un unico rapporto di lavoro in ragione del solo fatto che il
rapporto stesso sia ormai concluso, anche qualora il creditore possa avere la
percezione della preesistenza dei relativi diritti per essere i fatti genetici
anteriori alla cessazione del rapporto (come nel caso di pretese risarcitorie
in cui il comportamento fonte di responsabilità del datore sia sorto in corso
di rapporto di lavoro): e ciò da un canto per l'inesistenza di una precisa
regola, nell'ordinamento positivo e quindi frutto di scelta consapevole del
legislatore, che imponga al lavoratore, in presenza di plurimi crediti,
ancorché derivanti da un medesimo rapporto di durata, di azionarli
necessariamente in un unico contesto, ma anche, e dall'altro canto, per la
difficoltà di trarre tale regola in via interpretativa da norme processuali
dettate ad altri fini e di ergerla a tertium genus (tra prescrizione e
decadenza) di limite temporale unificante per l'esercizio di plurime pretese. Invero,
la pronuncia delle Sezioni Unite attiene alla diversa ipotesi di frazionamento
del credito scaturente da un unico rapporto obbligatorio, ossia da un'unica
obbligazione, ma tale unicità non è rinvenibile nella diversa ipotesi di
presunta unificazione dei diritti (retributivi o risarcitori) derivanti una
pluralità di titoli rispetto ai quali la cessazione del rapporto di lavoro, ove
pure costituisca elemento costitutivo delle singole fattispecie, non per questo
consente di ritenere esistente un solo rapporto obbligatorio. Pur nella
consapevolezza della necessità di una lettura comunitariamente orientata delle
norme processuali dell'ordinamento interno - ha affermato la Corte - non sembra
dunque che, costruendo la violazione dell'obbligo di correttezza e buona fede
in senso derivato dall'art. 88 cod. proc. civ., che sancisce l'obbligo per le parti
ed i difensori di comportarsi con lealtà e probità, possa pervenirsi ad
attribuire al comportamento processualmente sleale la specifica sanzione della
improponibilità delle domande successivamente proposte. Al contrario di altri ordinamenti, nel nostro
il giudice non dispone di poteri "filtranti", ovvero della facoltà di
precludere, con un non liquet, il giudizio proposto con finalità
scorrette od abusive. E' palese come il nostro ordinamento processuale non
consenta - salva una diversa interpretazione eventualmente adottata dalle
Sezioni Unite della Corte - una adeguata repressione e prevenzione dei fenomeni
di abuso del processo. Tanto meno tale sanzione potrebbe estendersi sino a
comportare la consumazione del diritto di azione, ostandovi evidenti ragioni di
rilievo costituzionale. Se una facoltà di azione è riconosciuta
dall'ordinamento, l'esercizio della stessa non integra di per sé gli estremi di
una situazione di abuso del processo o di esercizio del diritto in forme
eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, in
violazione del principio di lealtà processuale previsto dall'art. 88 cod. proc.
civ. e del giusto e sollecito processo stabilito dall'art. 111 Cost. (cfr.
Cass. n. 3207 del 2012). Pur nella condivisibile considerazione che porta a
ravvisare nell'inutile moltiplicazione delle azioni un abuso del processo,
idoneo a gravare il debitore dell'aumento degli oneri processuali, con evidente
lievitazione dei costi a carico della parte soccombente, di per sé contrastante
con l'inderogabile dovere di solidarietà, che responsabilizza il giudice e le
parti alla luce dei principi del giusto processo ispirato al canone della
ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2) - ha rilevato la Corte - una parziale eliminazione degli effetti
distorsivi che derivano dall'abuso dello strumento processuale potrebbe
conseguirsi attraverso la valutazione dell'onere delle spese, come se unico fosse
stato il procedimento sin dall'origine (v., in proposito, Cass. n. 10634 del
2010; Cass. 5.5.2011, n. 9962). Al di fuori di tale possibilità non vi sono strumenti
per far derivare dalla violazione dei dovere di lealtà e probità configurabile
nella proposizione di una pluralità di domande a rapporto ormai cessato, per
fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima,
ancorché nella consapevolezza del creditore della loro sussistenza, la sanzione
della improponibilità delle domande successive alla prima. Gli strumenti che l'ordinamento
appresta solo indirettamente - ha concluso la Corte - possono sanzionare tale
comportamento, ma non nei termini della preclusione processuale suddetta. Per
tali ragioni la Corte ritenendo di non potere condividere l'orientamento di cui
alle sentenze sopra menzionate della Sezione Lavoro, emesse in controversie del
tutto analoghe a quella in esame, ed al fine di prevenire il possibile
contrasto giurisprudenziale che scaturirebbe ove il Collegio definisse come
sopra la controversia e dovendo, comunque, la questione stessa essere
qualificata "di massima di
particolare importanza", a norma dell'art. 374, secondo comma, cod.
proc. civ., anche in ragione del rilievo processuale "trasversale" a
più Sezioni, ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l'eventuale
assegnazione alle Sezioni Unite della Corte.
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