Legge e giustizia: giovedì 18 aprile 2024

Pubblicato in : Giudici avvocati e processi

ALLE SEZIONI UNITE L'ABUSO DEL PROCESSO -

Contrasto giurisprudenziale nella Sezione Lavoro (Cassazione Sezione Lavoro ordinanza  n. 1251 del 25 gennaio 2016, Pres. Macioce, Rel. Blasutto).


Con ricorso al Giudice del lavoro di Torino depositato il 26 marzo 2009, Giovanni  A. ha chiesto la condanna della ex datrice di lavoro Fiat Auto s.p.a. al pagamento di una somma a titolo di ricalcolo dell'indennità premio di fedeltà con inclusione dei compensi percepiti in modo continuativo. Il Tribunale di Torino ha dichiarato l'improponibilità della domanda, in quanto il ricorrente aveva agito in precedenza chiedendo la rideterminazione del TFR per incidenza sulla relativa base di calcolo delle voci retributive percepite in via continuativa. Secondo il Tribunale i crediti fatti valere nelle due cause, derivando dalla cessazione del medesimo rapporto di lavoro, avrebbero potuto e dovuto essere azionati congiuntamente, alla luce della sentenza n. 23726/2007 delle Sezioni Unite della Corte di Cessazione; il ricorrente aveva invece indebitamente frazionato il credito in una pluralità di domande. La Corte di appello torinese, mutando il proprio precedente orientamento in materia, ha accolto l'appello proposto dal lavoratore, osservando che il principio della infrazionabilità della domanda, ribadito anche da Cass. n. 26961/2009, 15476/2008, 28719/2008, opera all'interno di un rapporto obbligatorio ritenuto unico in senso proprio, mentre dal rapporto di lavoro discende una pluralità di obbligazioni, ognuna con una propria specifica fonte, di natura legale oppure contrattuale, concernente istituti economici diversi. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione.

La Suprema Corte, (Sezione Lavoro n. 1251 del 25 gennaio 2016 Pres. Macioce, Rel. Blasutto) ha rilevato l'esistenza nell'ambito della Sezione Lavoro di un prevalente orientamento giurisprudenziale nel senso che debba essere contrastato l'abuso del processo. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, applicabile in ambito contrattuale ed extracontrattuale, che impone di mantenere, nei rapporti della vita di relazione, un comportamento leale (specificatosi in obblighi di informazione e di avviso) nonché volto alla salvaguardia dell'utilità altrui, nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (principio poi ripreso dalla sentenza delle S.U. n. 23726 del 2007). Tuttavia - ha affermato la Corte - da tali principi non sembra possa argomentarsi alcuna possibilità di ricondurre ad unitarietà i molteplici crediti retributivi o risarcitori derivanti da un unico rapporto di lavoro in ragione del solo fatto che il rapporto stesso sia ormai concluso, anche qualora il creditore possa avere la percezione della preesistenza dei relativi diritti per essere i fatti genetici anteriori alla cessazione del rapporto (come nel caso di pretese risarcitorie in cui il comportamento fonte di responsabilità del datore sia sorto in corso di rapporto di lavoro): e ciò da un canto per l'inesistenza di una precisa regola, nell'ordinamento positivo e quindi frutto di scelta consapevole del legislatore, che imponga al lavoratore, in presenza di plurimi crediti, ancorché derivanti da un medesimo rapporto di durata, di azionarli necessariamente in un unico contesto, ma anche, e dall'altro canto, per la difficoltà di trarre tale regola in via interpretativa da norme processuali dettate ad altri fini e di ergerla a tertium genus (tra prescrizione e decadenza) di limite temporale unificante per l'esercizio di plurime pretese. Invero, la pronuncia delle Sezioni Unite attiene alla diversa ipotesi di frazionamento del credito scaturente da un unico rapporto obbligatorio, ossia da un'unica obbligazione, ma tale unicità non è rinvenibile nella diversa ipotesi di presunta unificazione dei diritti (retributivi o risarcitori) derivanti una pluralità di titoli rispetto ai quali la cessazione del rapporto di lavoro, ove pure costituisca elemento costitutivo delle singole fattispecie, non per questo consente di ritenere esistente un solo rapporto obbligatorio. Pur nella consapevolezza della necessità di una lettura comunitariamente orientata delle norme processuali dell'ordinamento interno - ha affermato la Corte - non sembra dunque che, costruendo la violazione dell'obbligo di correttezza e buona fede in senso derivato dall'art. 88 cod. proc. civ., che sancisce l'obbligo per le parti ed i difensori di comportarsi con lealtà e probità, possa pervenirsi ad attribuire al comportamento processualmente sleale la specifica sanzione della improponibilità delle domande successivamente proposte.  Al contrario di altri ordinamenti, nel nostro il giudice non dispone di poteri "filtranti", ovvero della facoltà di precludere, con un non liquet, il giudizio proposto con finalità scorrette od abusive. E' palese come il nostro ordinamento processuale non consenta - salva una diversa interpretazione eventualmente adottata dalle Sezioni Unite della Corte - una adeguata repressione e prevenzione dei fenomeni di abuso del processo. Tanto meno tale sanzione potrebbe estendersi sino a comportare la consumazione del diritto di azione, ostandovi evidenti ragioni di rilievo costituzionale. Se una facoltà di azione è riconosciuta dall'ordinamento, l'esercizio della stessa non integra di per sé gli estremi di una situazione di abuso del processo o di esercizio del diritto in forme eccedenti o devianti rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, in violazione del principio di lealtà processuale previsto dall'art. 88 cod. proc. civ. e del giusto e sollecito processo stabilito dall'art. 111 Cost. (cfr. Cass. n. 3207 del 2012). Pur nella condivisibile considerazione che porta a ravvisare nell'inutile moltiplicazione delle azioni un abuso del processo, idoneo a gravare il debitore dell'aumento degli oneri processuali, con evidente lievitazione dei costi a carico della parte soccombente, di per sé contrastante con l'inderogabile dovere di solidarietà, che responsabilizza il giudice e le parti alla luce dei principi del giusto processo ispirato al canone della ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2) - ha rilevato la Corte -  una parziale eliminazione degli effetti distorsivi che derivano dall'abuso dello strumento processuale potrebbe conseguirsi attraverso la valutazione dell'onere delle spese, come se unico fosse stato il procedimento sin dall'origine (v., in proposito, Cass. n. 10634 del 2010; Cass. 5.5.2011, n. 9962). Al di fuori di tale possibilità non vi sono strumenti per far derivare dalla violazione dei dovere di lealtà e probità configurabile nella proposizione di una pluralità di domande a rapporto ormai cessato, per fatti genetici anteriori o che trovano titolo nella cessazione medesima, ancorché nella consapevolezza del creditore della loro sussistenza, la sanzione della improponibilità delle domande successive alla prima. Gli strumenti che l'ordinamento appresta solo indirettamente - ha concluso la Corte - possono sanzionare tale comportamento, ma non nei termini della preclusione processuale suddetta. Per tali ragioni la Corte ritenendo di non potere condividere l'orientamento di cui alle sentenze sopra menzionate della Sezione Lavoro, emesse in controversie del tutto analoghe a quella in esame, ed al fine di prevenire il possibile contrasto giurisprudenziale che scaturirebbe ove il Collegio definisse come sopra la controversia e dovendo, comunque, la questione stessa essere qualificata "di massima di particolare importanza", a norma dell'art. 374, secondo comma, cod. proc. civ., anche in ragione del rilievo processuale "trasversale" a più Sezioni, ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della Corte.

 


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