Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

RILASCIO, DA PARTE DEL LAVORATORE LICENZIATO, DI QUIETANZA LIBERATORIA CON RINUNZIA A OGNI ALTRO DIRITTO - Non preclude una successiva azione giudiziaria nei confronti del datore di lavoro (Cassazione Sezione Lavoro n. 13975 del 10 dicembre 1999, Pres. Trezza, Rel. Giannantonio).

V.S., dipendente dell’Azienda Municipalizzata Autotrasporti di Palermo, nel 1978 è stato dichiarato inidoneo alle mansioni di bigliettaio ed è stato trasferito all’ufficio abbonamenti dove ha svolto mansioni impiegatizie qualitativamente superiori a quelle in precedenza prestate. Il 30 novembre 1990 egli è stato collocato in quiescenza, in base ad un piano di esodo predisposto dall’azienda in attuazione dell’art. 3 della legge 12 luglio 1988 n. 270, intitolato “agevolazioni dell’esodo degli inidonei”.

Questa norma prevede che le aziende esercenti pubblici servizi di trasporto predispongano un programma quinquennale di esodo dei lavoratori iscritti al fondo di previdenza, che entro il 30 giugno 1986 siano stati dichiarati inidonei alle mansioni proprie della qualifica di provenienza, semprechè abbiano maturato almeno 15 anni di effettiva contribuzione. Con sentenza dell’8 febbraio 1991 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità di questa norma nella parte in cui non esclude dal piano i lavoratori che, pur dichiarati inidonei, abbiano successivamente svolto e svolgano mansioni equivalenti o superiori a quelle per le quali erano stati dichiarati inidonei. Il 19 febbraio 1991 V.S. ha riscosso il trattamento di fine rapporto sottoscrivendo un documento nel quale rilasciava “ampia valida, estintiva, liberatoria quietanza a favore dell’AMAT, dichiarando e riconoscendo di non avere null’altro a pretendere sia dall’AMAT che dalle aziende che la precedettero e ciò oltrechè in relazione al servizio prestato dal giorno dell’assunzione all’esonero, in relazione altresì alla cessazione del rapporto di lavoro”. Il 30 ottobre 1991 V.S. ha proposto ricorso al Pretore di Palermo, chiedendo la dichiarazione di illegittimità del suo esonero, in base alla sentenza della Corte Costituzionale emessa l’8 febbraio 1991, avendo egli svolto, dopo la dichiarazione di inidoneità, mansioni superiori.

Il Pretore ha accolto la domanda condannando l’azienda al ripristino del rapporto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione del rapporto. In grado di appello, questa decisione è stata integralmente riformata dal locale Tribunale, che ha rigettato la domanda proposta dal lavoratore. Il Tribunale ha ritenuto che il provvedimento di cessazione anticipata del rapporto di lavoro dovesse considerarsi consolidato sia per la sottoscrizione da parte del lavoratore di una quietanza liberatoria sia per l’inerzia da lui dimostrata facendo trascorrere 11 mesi dalla comunicazione aziendale e 8 mesi dalla cessazione del rapporto prima di ricorrere al Pretore.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 13975 del 10 dicembre 1999, Pres. Trezza, Rel. Giannantonio), ha accolto il ricorso del lavoratore, affermando che le quietanze liberatorie sottoscritte dal lavoratore al momento della cessazione del rapporto non costituiscono rinunzia o transazione tale da dovere essere impugnata nel termine di 6 mesi previsti dall’articolo 2113 cod. civ. La complessità della legislazione in materia di lavoro e lo stato di soggezione nel quale si trova il lavoratore nei confronti del datore di lavoro, specie in un periodo cosi delicato come quello immediatamente successivo alla cessazione del rapporto e prima che gli siano state corrisposte le somme dovute a seguito di tale cessazione – ha osservato la Corte Suprema di Cassazione - possono far ragionevolmente ritenere che il lavoratore si sia indotto a rilasciare la quietanza, con la rinuncia a far valere ogni suo ulteriore diritto, senza avere una chiara consapevolezza di quali potessero essere tali diritti e spinto unicamente dalla necessità di ottenere immediatamente quelle somme che, benché dovute, il datore di lavoro non gli avrebbe corrisposto senza l'apposizione della clausola generale di rinuncia nella quietanza.

Ciò peraltro – ha aggiunto la Corte Suprema di Cassazione - non esclude che in determinate e particolari circostanze il giudice possa ritenere che la rinunzia o la transazione contenuta nella quietanza corrispondano ad una volontà perfettamente libera e consapevole e che pertanto abbiano una efficacia liberatoria; ciò potrebbe verificarsi ad esempio, nell'ambito di una controversia stragiudiziale, con intervento di legali e rispetto a pretese inizialmente superiori poi ridottesi in sede di accordo compromissorio; non si verifica invece nel caso in cui il lavoratore abbia rilasciato la quietanza senza alcuna assistenza. E’ anche irrilevante – ha osservato la Corte - l'inerzia iniziale del lavoratore che ha ritenuto, almeno in un primo momento, di non far valere i propri diritti: è evidente infatti che il lavoratore può liberamente scegliere tra l'agire giudizialmente per la tutela dei propri diritti e la soluzione, più pacifica anche se meno redditizia, di accettare il comportamento, sia pure illegittimo, del datore di lavoro. Il decorso del tempo per riflettere su questa alternativa non può pregiudicare, di per sé solo, il diritto di agire del lavoratore, almeno sino a quando non si compia il termine di prescrizione.


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