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Legge e giustizia: venerd́ 29 marzo 2024
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INCOMBE ALL'AZIENDA L'ONERE DI PROVARE L'ABUSO DEL CELLULARE IN DOTAZIONE AL LAVORATORE - Identificando i destinatari delle telefonate (Cassazione Sezione Lavoro n. 17108 del 16 agosto 2016, Pres. Nobile, Rel. Manna).
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Vincenzo C. dipendente della B.I.
Italia con mansioni di informatore medico-scientifico è stato sottoposto a
procedimento disciplinare e licenziato con l'addebito di reiterato abuso del
telefonino aziendale in dotazione per effettuare chiamate per ragioni non di
servizio. Nella lettera di apertura del procedimento disciplinare l'azienda ha
indicato i numeri di telefono chiamati risultanti da un tabulato Vodafone con
le ultime tre cifre criptate. Nel giudizio che ne è seguito davanti al
Tribunale di Firenze, il lavoratore ha contestato l'addebito rilevando altresì
la mancanza di prove in ordine all'identità dei destinatari delle telefonate.
Il Tribunale ha annullato il licenziamento. L'azienda ha proposto appello. La
Corte di Firenze, con sentenza del novembre 2011, ha accolto l'impugnazione,
riformando integralmente la decisione di primo grado e dichiarando legittimo il
licenziamento. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando
l'impugnata sentenza nella parte in cui ha addossato al lavoratore l'onere di
dimostrare, facendo ricorso alla propria agenda telefonica, l'identità dei
destinatari delle telefonate oggetto di addebito da parte della società, dei
quali nella lettera di contestazione erano stati indicati i numeri di telefono
con le ultime tre cifre criptate. Il ricorrente ha obiettato che,
contrariamente a quanto ritenuto dai giudici d'appello, il datore di lavoro ben
avrebbe potuto depositare (cosa che invece non aveva fatto) i tabulati
telefonici Vodafone da cui aveva desunto gli asseriti abusi del telefonino
aziendale in uso all'odierno ricorrente, a ciò non ostando alcuna normativa
sull'altrui diritto alla riservatezza, vuoi perché recessivo rispetto alle
esigenze di difesa in sede processuale, vuoi perché, se i tabulati telefonici
Vodafone recavano criptate le ultime tre cifre dei numeri di telefono chiamati,
comunque non avrebbero potuto consentire l'individuazione dei destinatari e
violarne la privacy; inoltre, contrariamente a quanto affermato in sentenza, solo
poche decine di telefonate (per di più anche reiterate in rapida sequenza, a
dimostrazione del fatto che si trattava di utenze occupate) erano avvenute in
orari non lavorativi; né - si conclude il motivo - sono emerse altre prove
delle asserite chiamate di carattere meramente personale addebitate al
lavoratore e comunque, anche se l'addebito in oggetto fosse stato integralmente
provato, l'abuso si sarebbe ridotto, in sintesi e a tutto concedere, a non più
di 7,9 telefonate al giorno per motivi non di lavoro.
La Suprema Corte, Sezione Lavoro
con sentenza n. 17108 del 16 agosto 2016 (Pres. Nobile Rel. Manna) ha accolto
il ricorso. La società - ha osservato la Corte - si è limitata ad indicare
nella lettera di contestazione un certo numero di telefonate a numeri
parzialmente criptati (desunti da tabulati Vodafone poi neppure depositati in
giudizio) allegandone, ma non provandone in alcun modo, la natura meramente
privata anziché lavorativa. Ciò nonostante, la sentenza impugnata ha rigettato
la domanda del lavoratore per essere mancata la prova, che ha ritenuto fargli
carico, dell'identità dei destinatari delle telefonate oggetto di contestazione
e, così, del carattere lavorativo o meramente personale dei colloqui con essi.
Così statuendo - ha rilevato la Corte - la sentenza ha invertito quell'onere
della prova (della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di
licenziamento) che l'art. 5 legge n. 604 del 1966 attribuisce inderogabilmente
al datore di lavoro. Si legge nell'impugnata sentenza che mentre la società non
avrebbe potuto, per rispetto della privacy, identificare nella loro completezza
i numeri telefonici chiamati con il telefonino cellulare dell'azienda
dall'odierno ricorrente principale, questi ben avrebbe potuto fare il contrario
avvalendosi della propria agenda o rubrica telefonica, per risalire (esaminando
i numeri criptati solo nelle ultime tre cifre) ai destinatari e ai motivi delle
chiamate: in tal modo i giudici d'appello si sono sostanzialmente avvalsi (pur
non enunciandolo espressamente) del criterio empirico della vicinanza alla
fonte di prova. Ora, è pur vero che se ne può ammettere l'uso, ove la
ripartizione dell'onere probatorio in ragione della distinzione tra fatti
costitutivi e fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto dia un
risultato non soddisfacente dal punto di vista della tutela del diritto di
difesa di cui all'art. 24 Cost., nel senso di renderlo impossibile o troppo
difficile. Ma il criterio empirico di vicinanza alla fonte di prova deve
ritenersi comunque interdetto quando - come nel caso dell'art. 5 cit. - il
legislatore stabilisca esplicitamente a priori l'onere probatorio. Ogni diversa
esegesi importerebbe una vera e propria sostituzione della valutazione operata
dal legislatore con quella dell'interprete e un sostanziale abbandono di ogni
regola certa, la cui importanza è invece particolare proprio sul terreno
processuale.
Deve, invece, ritenersi consentito il ricorso al criterio empirico
de quo per dirimere un'eventuale sovrapposizione tra fatti costitutivi e fatti
estintivi, impeditivi o modificativi, oppure allorquando, assolto l'onere
probatorio dalla parte che ne sia onerata, l'altra possa (per vicinanza,
appunto, alla fonte di prova) dimostrare fatti idonei ad inficiare la portata
di quelli ex adverso dimostrati. Ma non è questo il caso, essendosi la società
limitata a contestare le telefonate sospette. A ciò si aggiunga che anche il
criterio della vicinanza alla fonte di prova risulta (malamente) applicato in
base ad una mera congettura, anziché ad una massima di esperienza: è, infatti,
una mera congettura quella secondo cui tutti i numeri di telefono chiamati per
lavoro o per altra ragione vengano puntualmente registrati su agenda cartacea
od informatica, al punto da poter essere a posteriori agevolmente ricostruiti
dal chiamante. Inoltre, affermare che per la società sarebbe stato troppo
difficile (se non impossibile) dimostrare che i soggetti chiamati dal
lavoratore non erano medici da visitare od altri soggetti da interpellare per
motivi di lavoro non spiega, a monte, perché mai - allora - la società, pur non
disponendo di dati in proposito, nondimeno abbia ritenuto che le telefonate
oggetto della lettera di contestazione fossero state effettuate per meri motivi
personali. In altre parole, come la società non avrebbe potuto sapere chi erano
i destinatari, così non avrebbe neppure avuto ragione di dubitare del motivo
delle chiamate. L'unico indizio a riguardo utilizzato dall'azienda (in ciò seguita dalla Corte territoriale)
consiste nel rilievo che nel totale delle chiamate oggetto di contestazione ve
ne sarebbe stato "un gran numero" in orari o in giorni non
lavorativi: ma in tal caso la società avrebbe dovuto contestare solo queste
telefonate e poi, su tale base, a sua volta il giudice di merito avrebbe
dovuto, anche d'ufficio, apprezzare in concreto la gravità dell'addebito.
Quanto al non aver predigitato il numero "9", che avrebbe consentito
di addebitare al dipendente (anziché alla società) il costo della chiamata,
fino a quando non se ne dimostri il carattere personale resta circostanza
neutra.
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