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Legge e giustizia: mercoledì 08 maggio 2024
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IN CASO DI IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO CON IL RITO FORNERO PUO' CHIEDERSI IN VIA SUBORDINATA IL PAGAMENTO DELLE SPETTANZE DI FINE RAPPORTO - Giusto processo (Cassazione Sezione Lavoro n. 17091 del 12 agosto 2016, Pres. Di Cerbo, Rel. Esposito).
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Salvatore
S. dipendente della Mecfond spa ha impugnato con rito Fornero, innanzi al
Tribunale di Napoli il licenziamento comunicatogli l'11 ottobre 2012, chiedendo
in via principale la reintegrazione nel posto di lavoro e in via subordinata la
condanna dell'azienda a corrispondergli il t.f.r. e l'indennità sostitutiva del
preavviso. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Napoli hanno ritenuto
legittimo il licenziamento ed hanno ritenuto inammissibile, perché non
proponibile con il rito Fornero, la domanda diretta ad ottenere il t.f.r. e l'indennità
sostitutiva del preavviso. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione
censurando la sentenza della Corte d'Appello di Napoli, tra l'altro, per avere
ritenuto inammissibile, perché imponibile con il rito Fornero la domanda
subordinata diretta ad ottenere il pagamento delle spettanze di fine rapporto.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro 12 agosto 2016 n. 17091 Pres. Di Carlo, Rel.
Esposito) ha accolto il ricorso per quanto attiene la dichiarazione di
inammissibilità della domanda subordinata.
La
censura sul punto - ha rilevato la Corte - involge l'interpretazione dell'art. 1 c.
48 della I. n. 92 del 2012. La norma prevede testualmente che "con il
ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma
47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi".
E' da premettere che il tenore della
disposizione non consente un'interpretazione
strettamente aderente al dato testuale. L'evidente antinomia tra le
espressioni "domande diverse" e "identici fatti
costitutivi", infatti, è conciliabile soltanto ove si ritenga proponibile
una domanda in cui, ferme le allegazioni proprie della domanda proposta ai
sensi del comma 47, muti esclusivamente il petitum: ipotesi, questa, in
concreto non prospettabile, posto che all'impugnativa dei licenziamenti in
discussione (contemplata nel comma 47 e per definizione soggetta al rito
speciale) corrisponde necessariamente, quale petitum, la richiesta della tutela
prevista dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300. Ne consegue che si
deve accedere a un'interpretazione che, per un verso, consenta di attribuire un
significato alla disposizione (che, cioè, non porti ad escludere del tutto la proponibilità
di domande diverse da quelle di cui al comma 47), e, per altro verso, sia
coerente con la finalità sottesa all'insieme delle norme regolanti il rito
speciale, connotate da un impulso di accelerazione impresso con la previsione
di termini stringenti e cadenzati, che è quella di limitarne l'ambito di
applicazione, assicurando una tutela reintegratoria sollecita. In sostanza alla
norma va ricondotto un significato che risponda all'intento di evitare che il thema decidendum, individuato con
riferimento al nucleo della controversia necessariamente assoggettato al rito
speciale, si allarghi con l'introduzione di nuovi temi d'indagine, tali da ritardare
il processo, vanificando la celerità della sua conclusione. Tutto ciò premesso
e venendo alla questione in esame, va rilevato che le domande proposte in via
subordinata dal lavoratore (dirette all'accertamento del diritto del medesimo
al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, in ipotesi di
accoglimento della tesi della controparte) sono riconducibili al thema decidendum della controversia come
delineatosi nella dialettica processuale. Esse, infatti, riguardando le pretese
al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, nascenti dalla
cessazione del rapporto, traggono fondamento dai medesimi fatti costitutivi (e
impeditivi) posti a base della contrapposta deduzione delle parti riguardo alla
sussistenza del giustificato motivo di recesso. In relazione alle predette
domande, pertanto, è ravvisabile la coincidenza dei fatti costitutivi con
quelli comunque dedotti nel processo dalle parti, con la conseguenza che
l'esame delle stesse non importa un indebito ampliamento del thema decidendum. L'interpretazione
offerta risulta coerente con i principi generali e le esigenze del sistema processuale.
E' da osservare che di recente si è assistito alla valorizzazione del principi
del giusto processo (e, in particolare, della ragionevole durata del processo),
elevato al rango di principio costituzionale a seguito della riformulazione
dell'art. 111 Cost., ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2,
e che ha assunto un valore sopranazionale alla stregua dell'art. 6 della
Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, così come applicata dalla Corte EDU.
In proposito questa Corte a Sezioni Unite ha avuto modo di rilevare che
"il principio della ragionevole durata del processo è divenuto punto
costante di riferimento nell'ermeneutica delle
norme, in particolare di quelle processuali, e nella individuazione del
rispettivo ambito applicativo, conducendo a privilegiare, pur nel doveroso
rispetto del dato letterale, opzioni contrarie a ogni inutile appesantimento
del giudizio. E tuttavia, non può non rilevarsi che il principio dei giusto
processo, di cui al richiamato art. 6 CEDU, non si esplicita nella sola durata ragionevole
dello stesso. Come sottolineato anche in dottrina, occorre prestare la massima attenzione
ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al
valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli
altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di
difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un
giudizio. In proposito, la stessa Corte Europea di Strasburgo, pur
sottolineando che ad essa non compete un sindacato sulla interpretazione e
sull'applicazione della regola emessa a livello nazionale, ammette poi le
limitazioni all'accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste
dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati
e lo scopo perseguito (v., ex plurimis, Ornar e. Francia, 29 luglio 1998;
Bellet c. Francia, 4 dicembre 1995), affermando i particolare che ritenere
l'irricevibilità di un ricorso non articolato con la specificità richiesta
configura un eccessivo formalismo (v., tra le altre, Walchi c. Francia, 26
luglio 2007); ovvero ponendo in rilievo la esigenza che le limitazioni al
diritto di accesso ad un giudice siano stabilite in modo chiaro e prevedibile,
e, dunque, alla stregua di una giurisprudenza non ondivaga o non specifica (v.,
a titolo esemplificativo, Faltejsek c. Rep. Ceca, 15 agosto 2008)" (Cass.
Sez. U, Sentenza n. 5700 del 12/03/2014, Rv. 629676). Per altro verso, anche la
Corte Costituzionale, con l'elaborazione degli ultimi anni, ha evidenziato la centralità
dell'effettività della tutela giurisdizionale, tra l'altro sottolineando
l'esigenza che la disciplina processuale non sacrifichi "il diritto delle
parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al "bene
della vita" oggetto della loro contesa" (così Corte Cost. n. 77 del 2007,
in tema di traslatio ludicii). Nel descritto contesto ordinamentale emerge il
contrasto dell'interpretazione della norma oggetto di censura con l'esigenza di
effettività della tutela giurisdizionale, dalla stessa derivando la necessità
che il lavoratore proponga due distinte azioni al fine di ottenere la possibile
tutela dei diritti nascenti da un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro, assoggettandosi a una
forte dilazione dei tempi richiesti per l'accertamento giudiziale di diritti,
quali quelli al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, che rivestono
rilevanza primaria per chi subisce il recesso dal rapporto di lavoro. Alle osservazioni svolte si aggiungano le
possibili conseguenze che discendono dai principi affermati dall'elaborazione
giurisprudenziale che ha affermato il divieto di abuso processuale in ipotesi
dì esercizio frazionato di pretese creditorie che trovino tutte titolo nella
cessazione del rapporto di lavoro, inteso quale fonte unitaria di obblighi e
doveri delle parti (in tal senso, da ultimo, Cass. Sez. L, Sentenza n. 4016 del
01/03/2016, Rv. 639227:
"Sussiste indebito frazionamento di pretese, dovute in forza di un unico
rapporto obbligatorio, anche nel caso di unico rapporto di lavoro, fonte di
crediti di natura contrattuale e legale, con collegamento ancora più stretto se
i giudizi siano promossi quando le obbligazioni sono note e consolidate per
essersi il suddetto rapporto già concluso, con conseguente necessità di evitare
l'aggravamento della posizione del debitore nel rispetto degli obblighi di
correttezza e buona fede contrattuali e in coerenza con il principio anche
sovranazionale del giusto processo, volto alla razionalizzazione del sistema
giudiziario, che non tollera frammentazioni del contenzioso con pericolo di
giudicati contrastanti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di
appello che aveva ritenuto legittime due distinte azioni giudiziarie del
lavoratore nei confronti del medesimo datore di lavoro, instaurate a seguito
della cessazione dello stesso rapporto subordinato, relative una al pagamento
del premio di risultato e l'altra alla rideterminazione del t.f.r. per
l'incidenza di voci retributive percepite in via continuativa)".
Nell'ambito del richiamato
indirizzo si collocano anche le pronunce n. 27064/2013 e 11256/2013 di questa Corte
di legittimità. In quest'ultima decisione si afferma che il richiamato
orientamento giurisprudenziale "mira a impedire che la parte debitrice sia
sottoposta ad oneri ed a costi difensivi abnormi attraverso un'indebita ed
evitabile parcellizzazione dei crediti che derivano da un rapporto obbligatorio
unitario. Peraltro la protezione dell'interesse del debitore ad un comportamento
processuale secondo correttezza e buona fede del creditore incontra anche ragioni
di interesse pubblico alla razionalizzazione del sistema giudiziario, impedendo
il formarsi di un contenzioso frammentato e disperso, ma riconducibile al
medesimo rapporto obbligatorio, con il pericolo del formarsi di contrasti tra
giudicati". Emerge una nuova prospettazione della domanda, che, sulla base
di una lettura bilanciata degli artt. 24 e 111 Cost., in funzione della tutela
di parte convenuta, è suscettibile di sanzionare con nuove preclusioni il
soggetto che, per ottenere l'adempimento delle prestazioni dovutegli, dia corso
a una serie di azioni processuali volte ad uno scopo normalmente realizzabile
con un unico giudizio. Dall'intero sistema, quindi, provengono segnali che
contrastano con l'interpretazione strettamente letterale dell'art. 1 c. 48
della I. n. 92 del 2012 cui si è attenuta la Corte nella sentenza impugnata. Ed
allora, in conclusione, deve ritenersi che, tra le possibili soluzioni interpretative
della norma in esame, debba privilegiarsi quella che, compatibile con una esegesi
letterale e sistematica, nonché con la garanzia di effettività della tutela
giurisdizionale, discostandosi dal
precedente enunciato dalla Suprema Corte (Sez. Lav., sentenza n. 16662 del 10/08/2015,
Rv. 636735), eviti il frazionamento dei processi e le pronunce in mero rito, consentendo
che un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro dia luogo a un unico processo,
senza eccessivo aggravio di attività e ritardo per il soggetto che chieda
l'attuazione dei diritti sorti a seguito di quell'unica vicenda.
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