Legge e giustizia: marted́ 23 aprile 2024

Pubblicato in : Giudici avvocati e processi

IN CASO DI IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO CON IL RITO FORNERO PUO' CHIEDERSI IN VIA SUBORDINATA IL PAGAMENTO DELLE SPETTANZE DI FINE RAPPORTO - Giusto processo (Cassazione Sezione Lavoro n. 17091 del 12 agosto 2016, Pres. Di Cerbo, Rel. Esposito).

Salvatore S. dipendente della Mecfond spa ha impugnato con rito Fornero, innanzi al Tribunale di Napoli il licenziamento comunicatogli l'11 ottobre 2012, chiedendo in via principale la reintegrazione nel posto di lavoro e in via subordinata la condanna dell'azienda a corrispondergli il t.f.r. e l'indennità sostitutiva del preavviso. Sia il Tribunale che la Corte d'Appello di Napoli hanno ritenuto legittimo il licenziamento ed hanno ritenuto inammissibile, perché non proponibile con il rito Fornero, la domanda diretta ad ottenere il t.f.r. e l'indennità sostitutiva del preavviso. Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza della Corte d'Appello di Napoli, tra l'altro, per avere ritenuto inammissibile, perché imponibile con il rito Fornero la domanda subordinata diretta ad ottenere il pagamento delle spettanze di fine rapporto. La Suprema Corte (Sezione Lavoro 12 agosto 2016 n. 17091 Pres. Di Carlo, Rel. Esposito) ha accolto il ricorso per quanto attiene la dichiarazione di inammissibilità della domanda subordinata.

La censura sul punto - ha rilevato la Corte - involge l'interpretazione dell'art. 1 c. 48 della I. n. 92 del 2012. La norma prevede testualmente che "con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle di cui al comma 47 del presente articolo, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi".  E' da premettere che il tenore della disposizione non consente un'interpretazione  strettamente aderente al dato testuale. L'evidente antinomia tra le espressioni "domande diverse" e "identici fatti costitutivi", infatti, è conciliabile soltanto ove si ritenga proponibile una domanda in cui, ferme le allegazioni proprie della domanda proposta ai sensi del comma 47, muti esclusivamente il petitum: ipotesi, questa, in concreto non prospettabile, posto che all'impugnativa dei licenziamenti in discussione (contemplata nel comma 47 e per definizione soggetta al rito speciale) corrisponde necessariamente, quale petitum, la richiesta della tutela prevista dall'articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300. Ne consegue che si deve accedere a un'interpretazione che, per un verso, consenta di attribuire un significato alla disposizione (che, cioè, non porti ad escludere del tutto la proponibilità di domande diverse da quelle di cui al comma 47), e, per altro verso, sia coerente con la finalità sottesa all'insieme delle norme regolanti il rito speciale, connotate da un impulso di accelerazione impresso con la previsione di termini stringenti e cadenzati, che è quella di limitarne l'ambito di applicazione, assicurando una tutela reintegratoria sollecita. In sostanza alla norma va ricondotto un significato che risponda all'intento di evitare che il thema decidendum, individuato con riferimento al nucleo della controversia necessariamente assoggettato al rito speciale, si allarghi con l'introduzione di nuovi temi d'indagine, tali da ritardare il processo, vanificando la celerità della sua conclusione. Tutto ciò premesso e venendo alla questione in esame, va rilevato che le domande proposte in via subordinata dal lavoratore (dirette all'accertamento del diritto del medesimo al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, in ipotesi di accoglimento della tesi della controparte) sono riconducibili al thema decidendum della controversia come delineatosi nella dialettica processuale. Esse, infatti, riguardando le pretese al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, nascenti dalla cessazione del rapporto, traggono fondamento dai medesimi fatti costitutivi (e impeditivi) posti a base della contrapposta deduzione delle parti riguardo alla sussistenza del giustificato motivo di recesso. In relazione alle predette domande, pertanto, è ravvisabile la coincidenza dei fatti costitutivi con quelli comunque dedotti nel processo dalle parti, con la conseguenza che l'esame delle stesse non importa un indebito ampliamento del thema decidendum. L'interpretazione offerta risulta coerente con i principi generali e le esigenze del sistema processuale. E' da osservare che di recente si è assistito alla valorizzazione del principi del giusto processo (e, in particolare, della ragionevole durata del processo), elevato al rango di principio costituzionale a seguito della riformulazione dell'art. 111 Cost., ad opera della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, e che ha assunto un valore sopranazionale alla stregua dell'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, così come applicata dalla Corte EDU. In proposito questa Corte a Sezioni Unite ha avuto modo di rilevare che "il principio della ragionevole durata del processo è divenuto punto costante di riferimento nell'ermeneutica delle  norme, in particolare di quelle processuali, e nella individuazione del rispettivo ambito applicativo, conducendo a privilegiare, pur nel doveroso rispetto del dato letterale, opzioni contrarie a ogni inutile appesantimento del giudizio. E tuttavia, non può non rilevarsi che il principio dei giusto processo, di cui al richiamato art. 6 CEDU, non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso. Come sottolineato anche in dottrina, occorre prestare la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio. In proposito, la stessa Corte Europea di Strasburgo, pur sottolineando che ad essa non compete un sindacato sulla interpretazione e sull'applicazione della regola emessa a livello nazionale, ammette poi le limitazioni all'accesso ad un giudice solo in quanto espressamente previste dalla legge ed in presenza di un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (v., ex plurimis, Ornar e. Francia, 29 luglio 1998; Bellet c. Francia, 4 dicembre 1995), affermando i particolare che ritenere l'irricevibilità di un ricorso non articolato con la specificità richiesta configura un eccessivo formalismo (v., tra le altre, Walchi c. Francia, 26 luglio 2007); ovvero ponendo in rilievo la esigenza che le limitazioni al diritto di accesso ad un giudice siano stabilite in modo chiaro e prevedibile, e, dunque, alla stregua di una giurisprudenza non ondivaga o non specifica (v., a titolo esemplificativo, Faltejsek c. Rep. Ceca, 15 agosto 2008)" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 5700 del 12/03/2014, Rv. 629676). Per altro verso, anche la Corte Costituzionale, con l'elaborazione degli ultimi anni, ha evidenziato la centralità dell'effettività della tutela giurisdizionale, tra l'altro sottolineando l'esigenza che la disciplina processuale non sacrifichi "il diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al "bene della vita" oggetto della loro contesa" (così Corte Cost. n. 77 del 2007, in tema di traslatio ludicii).  Nel descritto contesto ordinamentale emerge il contrasto dell'interpretazione della norma oggetto di censura con l'esigenza di effettività della tutela giurisdizionale, dalla stessa derivando la necessità che il lavoratore proponga due distinte azioni al fine di ottenere la possibile tutela dei diritti nascenti da un'unica vicenda estintiva  del rapporto di lavoro, assoggettandosi a una forte dilazione dei tempi richiesti per l'accertamento giudiziale di diritti, quali quelli al trattamento di fine rapporto e all'indennità di preavviso, che rivestono rilevanza primaria per chi subisce il recesso dal rapporto di lavoro.  Alle osservazioni svolte si aggiungano le possibili conseguenze che discendono dai principi affermati dall'elaborazione giurisprudenziale che ha affermato il divieto di abuso processuale in ipotesi dì esercizio frazionato di pretese creditorie che trovino tutte titolo nella cessazione del rapporto di lavoro, inteso quale fonte unitaria di obblighi e doveri delle parti (in tal senso, da ultimo, Cass. Sez. L, Sentenza n. 4016 del 01/03/2016, Rv. 639227:

"Sussiste indebito frazionamento di pretese, dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio, anche nel caso di unico rapporto di lavoro, fonte di crediti di natura contrattuale e legale, con collegamento ancora più stretto se i giudizi siano promossi quando le obbligazioni sono note e consolidate per essersi il suddetto rapporto già concluso, con conseguente necessità di evitare l'aggravamento della posizione del debitore nel rispetto degli obblighi di correttezza e buona fede contrattuali e in coerenza con il principio anche sovranazionale del giusto processo, volto alla razionalizzazione del sistema giudiziario, che non tollera frammentazioni del contenzioso con pericolo di giudicati contrastanti. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di appello che aveva ritenuto legittime due distinte azioni giudiziarie del lavoratore nei confronti del medesimo datore di lavoro, instaurate a seguito della cessazione dello stesso rapporto subordinato, relative una al pagamento del premio di risultato e l'altra alla rideterminazione del t.f.r. per l'incidenza di voci retributive percepite in via continuativa)".

Nell'ambito del richiamato indirizzo si collocano anche le pronunce n. 27064/2013 e 11256/2013 di questa Corte di legittimità. In quest'ultima decisione si afferma che il richiamato orientamento giurisprudenziale "mira a impedire che la parte debitrice sia sottoposta ad oneri ed a costi difensivi abnormi attraverso un'indebita ed evitabile parcellizzazione dei crediti che derivano da un rapporto obbligatorio unitario. Peraltro la protezione dell'interesse del debitore ad un comportamento processuale secondo correttezza e buona fede del creditore incontra anche ragioni di interesse pubblico alla razionalizzazione del sistema giudiziario, impedendo il formarsi di un contenzioso frammentato e disperso, ma riconducibile al medesimo rapporto obbligatorio, con il pericolo del formarsi di contrasti tra giudicati". Emerge una nuova prospettazione della domanda, che, sulla base di una lettura bilanciata degli artt. 24 e 111 Cost., in funzione della tutela di parte convenuta, è suscettibile di sanzionare con nuove preclusioni il soggetto che, per ottenere l'adempimento delle prestazioni dovutegli, dia corso a una serie di azioni processuali volte ad uno scopo normalmente realizzabile con un unico giudizio. Dall'intero sistema, quindi, provengono segnali che contrastano con l'interpretazione strettamente letterale dell'art. 1 c. 48 della I. n. 92 del 2012 cui si è attenuta la Corte nella sentenza impugnata. Ed allora, in conclusione, deve ritenersi che, tra le possibili soluzioni interpretative della norma in esame, debba privilegiarsi quella che, compatibile con una esegesi letterale e sistematica, nonché con la garanzia di effettività della tutela giurisdizionale,  discostandosi dal precedente enunciato dalla Suprema Corte (Sez. Lav., sentenza n. 16662 del 10/08/2015, Rv. 636735), eviti il frazionamento dei processi e le pronunce in mero rito, consentendo che un'unica vicenda estintiva del rapporto di lavoro dia luogo a un unico processo, senza eccessivo aggravio di attività e ritardo per il soggetto che chieda l'attuazione dei diritti sorti a seguito di quell'unica vicenda.


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