Marcello B. ha lavorato alle dipendenze dell'Istituto Poligrafo e Zecca dello Stato dal 16.3.1959 al 31.3.1995, svolgendo quotidianamente prestazioni di lavoro straordinario. Al termine del rapporto l'Istituto non ha tenuto conto, nella determinazione del t.f.r., dei compensi continuativamente percepiti dal lavoratore per il lavoro straordinario. Marcello B. ha chiesto al Tribunale di Roma di condannare l'Istituto al pagamento delle differenze di trattamento di fine rapporto derivanti dalla mancata inclusione nella retribuzione base dei compensi per lavoro straordinario. L'Istituto si è difeso sostenendo, fra l'altro, che le differenze richieste non erano dovute quanto meno per il periodo successivo al 1992, in seguito a una modifica della definizione contrattuale di retribuzione attuata dalle parti collettive; infatti il precedente c.c.l. del 1989 definiva all'art. 21, la retribuzione come "quanto complessivamente percepito per la prestazione lavorativa", mentre il successivo contratto collettivo all'art. 21 ha stabilito che la nozione della retribuzione deve essere intesa come quanto complessivamente percepito per la prestazione lavorativa "nell'orario normale". La difesa del lavoratore ha replicato che la modifica dell'art. 21 doveva ritenersi irrilevante, dal momento che l'art. 34 del contratto faceva riferimento alla legge n. 297/82. Il Tribunale ha dichiarato nullo il ricorso perché ha ritenuto che la domanda non fosse stata adeguatamente precisata. La Corte di Appello di Roma ha invece accolto la domanda del lavoratore in quanto ha ritenuto che le parti collettive, modificando l'art. 21 c.c.l. non abbiano correttamente esercitato la facoltà loro attribuita dalla legge n. 297/82 di escludere voci retributive dal calcolo del t.f.r. L'Istituto ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Roma per vizi di motivazione e violazione di legge. La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18289 del 30 agosto 2007, Pres. Mattone, Rel. Miani Canevari) ha rigettato il ricorso. L'art. 2120 cod. civ., nel testo sostituito dall'art. 1, L. 29 maggio 1982, n. 297, recante la disciplina del trattamento di fine rapporto - ha osservato la Corte - prevede che in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto ad un t.f.r. calcolato sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. Quindi il parametro di calcolo è una "quota... della retribuzione". Il secondo comma della medesima disposizione poi specifica che, salvo diversa previsione dei contratti collettivi la retribuzione annua, ai fini del calcolo del T.F.R., comprende tutte le somme, compreso l'equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese. Pertanto - ha affermato la Corte - il canone generale è il c.d. criterio dell'omnicomprensività della retribuzione, mentre eccezioni allo stesso possono essere contemplate, dalla contrattazione collettiva che è autorizzata anche a prevedere una diversa nozione di retribuzione ai fini del calcolo del T.F.R. Tuttavia - ha rilevato la Corte - le eccezioni alle regole devono essere apportate dalla contrattazione collettiva in modo chiaro e univoco, come è stato affermato nella sentenza della Suprema Corte n. 16618/03; anche le relazioni sindacali, come i rapporti negoziali, devono ispirarsi al rispetto del principio di correttezza e buona fede. Nella fattispecie - ha osservato la Corte - la deroga al criterio dell'omnicomprensività della retribuzione ai fini del T.F.R., sancito dall'art. 2120 cod. civ. rappresenta una limitazione di un diritto dei lavoratori altrimenti previsto dalla legge; questa limitazione non può essere introdotta in modo indiretto e quasi surrettizio, ma richiede che la deroga sia dichiarata espressamente o sia comunque desumibile in modo chiaro ed univoco. In relazione a tali criteri - ha affermato la Corte - la sentenza impugnata, che ha interpretato la disciplina collettiva in esame escludendo la possibilità di ravvisare nelle clausole negoziali l'espressione di una volontà di derogare alla nozione legale di retribuzione posta dall'art. 2120 secondo comma cod. civ., resiste alle censure mosse, posto che la denuncia di vizio di motivazione non consente di individuare alcun difetto di indagine in ordine all'assetto contrattuale descritto dalla parte ed esaminato dal giudice di merito; l'eccezione alla regola generale posta dalla norma di legge richiamata non può essere ricavata "in modo chiaro ed univoco" dall'art. 21 del CCNL (rubricato "nomenclatura") che esplicita il significato di alcuni termini ricorrenti agli effetti dell'interpretazione e dell'applicazione del medesimo contratto. In particolare il terzo comma della medesima disposizione prevede: "Le dizioni stipendio, salario, retribuzione devono essere intese come segue:[....] retribuzione è quanto complessivamente percepito dal quadro, dall'impiegato e dall'operaio per la sua prestazione lavorativa nell'orario normale". La funzione di tale disposizione è che, quando il contratto stesso fa riferimento alla "retribuzione", questo rinvio si riempie di contenuto mediante tale definizione contrattuale di retribuzione. Ma in ciò non può leggersi - ha affermato la Corte - una deroga implicita, e meno che mai espressa "in modo chiaro ed univoco", al canone legale dell'onnicomprensività sancito dall'art. 2120, primo e secondo comma, cit.; disposizione questa che non parla soltanto di "retribuzione" rimettendone la definizione alla contrattazione collettiva e prevedendo un canone legale solo come residuale, ma detta essa stessa la nozione legale di retribuzione ai fini del T.F.R. (quella omnicomprensiva) facoltizzando nello stesso tempo la contrattazione collettiva ad introdurre delle eccezioni; sicché quest'ultima può derogare al criterio legale della omnicomprensività della retribuzione ai fini del T.F.R.: a) vuoi prevedendo che alcuni emolumenti non entrino nel calcolo specificamente del T.F.R. ovvero di tutti gli istituti indiretti; b) vuoi più in generale dettando un'autonoma e diversa nozione di retribuzione ai fini del T.F.R.. Ma se la contrattazione collettiva non fa né l'uno né l'altro, bensì si limita a prevedere in generale - non specificamente ai fini del T.F.R. - una nozione contrattuale di retribuzione, non esercita quella facoltà di deroga consentita dall'art. 2120, secondo comma, cod. civ.
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