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Legge e giustizia: venerd́ 29 marzo 2024
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LA LIBERTA' DI RELIGIONE NON CONSENTE ALLO STRANIERO IL PORTO DI ARMI O DI OGGETTI ATTI AD OFFENDERE - Limiti alla libertà di religione (Cassazione Sezione Prima Penale n. 24084 del 15 maggio 2017, Pres. Mazzei, Rel. Novik).
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Il lavoratore SJ è stato
condannato dal Tribunale penale di Mantova alla pena di euro 2.000,00 di
ammenda per il reato previsto dall'art. 4 L. n. 110/1975 in quanto portava
fuori dalla propria abitazione senza giustificato motivo un coltello della
lunghezza complessiva di cm. 18,5 idoneo all'offesa per le sue caratteristiche,
infilato alla cintura. L'imputato era stato trovato in possesso dello stesso
dalla Polizia locale di Goito. Richiesto di consegnare l'arma aveva opposto
rifiuto adducendo che il comportamento si conformava ai precetti della sua
religione, essendo egli un indiano "Sikh". Secondo il giudice di merito le
usanze religiose integravano mera consuetudine della cultura di appartenenza e
non potevano avere l'effetto abrogativo di norma penale dettata a fini di
sicurezza pubblica. Avverso questa sentenza il condannato ha proposto ricorso
personalmente chiedendone l'annullamento per vizio di motivazione e violazione
di legge. Egli ha sostenuto che il porto di coltello era giustificato dalla sua
religione e trovava tutela nell'art 19
Cost. Rep. (libertà di fede religiosa). Il P.G. ha proposto ricorso, che è
stato accolto (Cass. I Civile n. 24084/2017).
In una società multietnica - ha
affermato la Corte - la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede
necessariamente l'identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e
società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l'integrazione non impone
l'abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell'art.
2 Cost. che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è
costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della
società ospitante. È quindi essenziale l'obbligo per l'immigrato di conformare
i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di
inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri
comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in
relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina. La decisione di
stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha consapevolezza, che i valori
di riferimento sono diversi da quella di provenienza ne impone il rispetto e
non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo
le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di
quelli della società ospitante. La società multietnica è una necessità, ma non
può portare alla formazione di arcipelaghi culturali configgenti, a seconda
delle etnie che la compongono, ostandovi l'unicità del tessuto culturale e
giuridico del nostro Paese che individua la sicurezza pubblica come un bene da
tutelare e, a tal fine, pone il divieto del porto di armi e di oggetti atti ad
offendere. Nessun ostacolo - ha affermato la Corte - viene in tal modo posto
alla libertà di religione, al libero esercizio del culto e all'osservanza dei
riti che non si rivelino contrari al buon costume. Proprio la libertà
religiosa, garantita dall'articolo 19 invocato, incontra dei limiti, stabiliti
dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle
della pacifica convivenza e della sicurezza, compendiate nella formula
dell'affermare la necessità di contemperare i diritti di libertà con le citate
esigenze. Come osserva la Corte Costituzionale nella sentenza numero 63 del
2016, "Tra gli interessi costituzionali
da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di
culto - nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le
ragioni spiegate sopra - sono senz'altro da annoverare quelli relativi alla
sicurezza, all'ordine pubblico e alla pacifica convivenza". Nello
stesso senso, si muove anche l'articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo che, al secondo comma, stabilisce che "La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può
essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge,
costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione
dell'ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o per la protezione
dei diritti e della libertà altrui".
La giurisprudenza europea, a
proposito del velo islamico, in Leyla Sahin c. Turchia [GC], n. 44774/98, §
111, CEDU 2005 XI ; Refah Partisi e altri c. Turchia [GC], n. 41340/98,
41342/98, 41343/98 e 41344/98, § 92, CEDU 2003 II, ha riconosciuto che lo Stato
può limitare la libertà di manifestare una religione se l'uso di quella libertà
ostacola l'obiettivo perseguito di tutela dei diritti e delle libertà altrui,
l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica. Nella causa Eweida e altri contro
Regno Unito del 15 gennaio 2013, la Corte ha riconosciuto la legittimità delle
limitazioni alle abitudini di indossare visibilmente collane con croci
cristiane durante il lavoro e ha suffragato l'opinione ricordando che, nello
stesso ambiente lavorativo, dipendenti di religione Sikh avevano accettato la
disposizione di non indossare turbanti o Kirpan (in questo modo dimostrando che
l'obbligo religioso non è assoluto e può subire legittime restrizioni). Pertanto,
tenuto conto che l'articolo 4 della legge n. 110 del 1975 ha base nel diritto
nazionale, è accessibile alle persone interessate e presenta "una formulazione abbastanza precisa per
permettere loro - circondandosi, all'occorrenza, di consulenti illuminati - di
prevedere, con un grado ragionevole nelle circostanze della causa, le
conseguenze che possono derivare da un atto determinato e di regolare la loro
condotta" (Gorzelik ed altri c. Polonia (Grande Camera), n 44158/98, § 64,
CEDU 2004), va affermato il principio per cui nessun credo religioso può
legittimare il porto in luogo pubblico di armi o di oggetti atti ad offendere.
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