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Legge e giustizia: sabato 20 aprile 2024
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VICENDA TRASLATIVA DELL'AZIENDA - Possibili eccezioni per alcuni contratti (Cassazione Sezione Lavoro n. 12919 del 23 maggio 2017, Pres. Nobile, Rel. Lorito).
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La vicenda traslativa
dell'azienda è disciplinata per i rapporti di diritto commerciale,
dall'art.2558 c.c. alla cui stregua, "se
non è pattuito diversamente, l'acquirente subentra nei contratti stipulati per
l'esercizio dell'azienda stessa che non abbiano carattere personale".
La stessa regola vale per i contratti di lavoro subordinato con la differenza
che la disciplina di carattere commerciale è qualificata da un carattere
dispositivo, mentre la regola lavoristica si configura come norma imperativa in
base alla quale il rapporto di lavoro con l'imprenditore subentrante costituisce
un effetto automatico ex lege della vicenda circolatoria. Vicenda che risulta
disciplinata nei sensi descritti, sin dalle norme consuetudinarie delle Camere
di Commercio, riprese dalla legge relativa al contratto di impiego privato di
cui al r.d.l. n.1825 del 1924 art. 11 comma 1 ed infine codificata
dall'art.2112 c.c.. Il principio della continuità dei rapporti di lavoro a
fronte di un mutamento nella titolarità dell'impresa, come sottolineato in
dottrina, era stato inizialmente predisposto per rispondere alle esigenze
dell'imprenditore alienante, di conseguire il massimo ricavato possibile dalla
cessione della propria attività economica, trasferendola nella sua integrità,
comprensiva di elementi materiali e personali, ed alle esigenze
dell'acquirente, di recepire una attività d'impresa idonea a bene operare nel
mercato, nel pieno delle sue potenzialità. Nell'ottica descritta, ove
l'imprenditore alienante avesse inteso neutralizzare il principio di continuità
dei contratti di lavoro con i propri dipendenti, avrebbe potuto liberamente
recedere dal rapporto ex art.2118 c.c. con il solo rispetto dei termini di
preavviso ovvero, per usare la dizione dell'originario art. 2112 c.c.,
"dare disdetta in tempo utile". In un rinnovato contesto ispirato all'esigenza
di tutelare maggiormente la posizione del lavoratore nelle vicende circolatorie
dell'impresa, onde garantire il suo interesse alla continuità dell'occupazione,
si colloca la direttiva comunitaria 14 febbraio 1977 n.77/187 che secondo
l'interpretazione offertane dalla Corte di Giustizia in numerosi approdi,
mirava proprio all'obiettivo di impedire che le ristrutturazioni nell'ambito
del mercato comune, si effettuassero a danno dei lavoratori delle imprese
coinvolte garantendo la salvaguardia dei loro diritti in caso di cambiamento di
datore di lavoro (vedi Corte di Giustizia 7 febbraio 1985 causa 105/84, Corte
di Giustizia 11 luglio 1985 causa 105/84).
Tale direttiva, poi modificata dalla
direttiva 29 giugno 1998 n.98/50/Ce ed ora abrogata e sostituita dalla direttiva
12 marzo 2001 n.2001/23/Ce (priva, peraltro, di portata innovativa), è
all'origine delle profonde modifiche introdotte nell'ordinamento italiano
dapprima con l'art.47 della legge 29 dicembre 1990 n.428 (che recepiva la
direttiva n.77/187) e, successivamente, con il d. Lgs. 2 febbraio 2001 n. 18
(solo marginalmente modificato dall'art. 32 d. Lgs. 10 settembre 2003 n. 276).
A fronte di un trasferimento d'azienda o di un suo ramo - così come il
legislatore ha inteso prescrivere in tema di appalto di servizi - in
definitiva, l'ordinamento appronta un sistema di garanzia per i lavoratori, di
continuità dell'occupazione, nel senso che il rapporto di lavoro continua con
il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano (art. 2112
c.c.). Ne consegue, coerentemente, da un canto, che la vicenda traslativa
dell'impresa non può costituire motivo di licenziamento né per il cedente né
per il cessionario; dall'altro, che non è richiesto il consenso dei lavoratori
coinvolti, dato l'effetto di trasferimento automatico ex lege connesso alla
configurazione del trasferimento d'azienda. In tale contesto normativo, la
cessione di azienda è stata configurata, con riferimento alla posizione del
lavoratore, quale successione legale nel contratto che, non richiedendo il
consenso del contraente ceduto, non è assimilabile alla cessione negoziale per
la quale tale consenso opera da elemento costitutivo della fattispecie di cui
all'art.1406 cod. civ. (vedi Cass. 22/7/2002 n.10701 cui adde ex plurimis,
Cass. 9/10/2009 n. 21481), per la precisazione secondo cui si ha cessione
d'azienda anche quando il complesso dei beni trasferiti non esaurisca i beni
costituenti l'azienda o il ramo ceduti, sempre che gli stessi conservino un
residuo di organizzazione che ne dimostri l'attitudine, sia pure con la
successiva integrazione del cessionario, all'esercizio dell'impresa, dovendo
comunque trattarsi di un insieme organicamente finalizzato "ex ante"
all'esercizio dell'attività d'impresa; Cass. 7/3/2013 n. 5678, secondo cui è
configurabile il trasferimento di un ramo di azienda anche nel caso in cui la
cessione abbia ad oggetto solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati
ed organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di
essere dotati di un particolare "know how" (o, comunque,
dall'utilizzo di "copyright", brevetti, marchi, etc.), con la
conseguenza che la cessione realizza la successione legale nel rapporto di
lavoro del cessionario senza bisogno di consenso dei contraenti ceduti).
Questa
Corte ha quindi confermato tali originari approdi rimarcando come a differenza
della ipotesi di una mera esternalizzazione di servizi, configurabile quale
cessione dei contratti di lavoro, che richiede per il suo perfezionamento il
consenso dei lavoratori ceduti (vedi Cass. 16/10/2006 n. 22125; Cass. 5/3/2008
n. 5932), nell'ipotesi della cessione di ramo di azienda si realizza la
successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario che non necessita del
consenso da parte dei contraenti ceduti (così in motivazione Cass. 4/12/12 n.
21711). In tal senso del resto, la giurisprudenza della Corte di Giustizia è da
tempo orientata laddove ha affermato (vedi sentenza 24/1/2002 C/51/00) che
l'art. 3, n. 1, della direttiva sancisce il principio del trasferimento automatico
al cessionario dei diritti e degli obblighi che risultano per il cedente dai
contratti di lavoro esistenti alla data del trasferimento dell'impresa. La
regola che risulta da queste disposizioni, secondo cui il trasferimento avviene
senza il consenso delle parti in causa, è imperativa; non è consentito
derogarvi in senso sfavorevole ai lavoratori. Di conseguenza, l'attuazione dei
diritti conferiti ai lavoratori dalla direttiva non può essere subordinata al
consenso né del cedente o del cessionario, né dei rappresentanti dei
lavoratori, né dei lavoratori stessi (sentenza 25 luglio 1991, causa C-362/89,
D'Urso e a., Racc. pag. 1-4105, punto 11).
Tuttavia, benché il trasferimento
del contratto di lavoro s'imponga sia per il datore di lavoro sia per il
lavoratore, la Corte ha ammesso la facoltà per quest'ultimo di rifiutare che il
suo contratto di lavoro sia trasferito al cessionario (v., in particolare,
sentenza 16 dicembre 1992, cause riunite C-132/91, C-138/91, C-139/91, Katsikas
e a., Race. pag. 1-6577, punti 31-33). In questo caso, la situazione del
lavoratore dipende dalla normativa di ogni Stato membro: o il contratto che
lega il dipendente all'impresa cedente può essere risolto su iniziativa del
datore di lavoro o su iniziativa del dipendente, oppure il contratto può
continuare con tale impresa (v., in particolare, sentenza Katsikas e a.,
citata, punto 36).
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