Legge e giustizia: mercoledì 24 aprile 2024

Pubblicato in : Giudici avvocati e processi

PER I CREDITI DI LAVORO MATURATI ENTRO IL 31 DICEMBRE 1994 IL RITARDO NEL PAGAMENTO COMPORTA IL CUMULO DEGLI INTERESSI CON LA RIVALUTAZIONE MONETARIA - Dal 1 gennaio 1995 vige il divieto di cumulo (Cassazione Sezione Lavoro n. 12523 del 12 dicembre 1998, Rel. Buccarelli, Rel. Evangelista).

Per un credito derivante da un rapporto di lavoro cessato nel 1988, il Tribunale di Firenze, con sentenza del giugno 1995, ha confermato la condanna pronunciata dal Pretore nei confronti della datrice di lavoro, al pagamento della somma di lire 7 milioni oltre interessi e rivalutazione monetaria. Contro questa decisione la datrice di lavoro ha proposto ricorso davanti alla Suprema Corte, censurando il Tribunale di Firenze, per avere, tra l'altro, concesso il cumulo degli interessi con la rivalutazione monetaria.

La Suprema Corte, (Sezione Lavoro n. 12523 del 12 dicembre 1998, Rel. Buccarelli, Rel. Evangelista), ha rigettato il ricorso, motivando ampiamente sulla cumulabilità degli interessi con la rivalutazione monetaria.
Essa ha ricordato che, da molti lustri, la giurisprudenza di gran lunga prevalente della Suprema Corte suole riconoscere che i crediti di lavoro hanno natura di crediti indicizzati, nel senso che la somma dovuta dal debitore, per reintegrare l'originario potere di acquisto della retribuzione in relazione alla svalutazione sopravvenuta dopo la maturazione del relativo diritto, non integra un risarcimento del danno, ma costituisce una componente dell'originaria obbligazione retributiva.
La rivalutazione monetaria, in altri termini, partecipa della medesima natura della sorte capitale, con la conseguenza che il credito retributivo rivalutato non rappresenta altro che l'originario credito del lavoratore nel suo valore reale aggiornato; e che gli interessi legali - da qualificarsi come compensativi in quanto dipendono dal mero ritardo nell'adempimento e prescindono dalla colpa - costituiscono un diritto autonomo, sebbene accessorio e necessario rispetto a quello concernente il capitale rivalutato, di natura risarcitoria, sicchè essi devono essere calcolati separatamente non potendosi considerare parte integrante del debito principale, col corollario che vanno computati sulla somma rivalutata e non sono suscettibili essi stessi di rivalutazione.

L'evoluzione della normativa in materia, svoltasi in termini di progressiva erosione dell'area di cumulabilità degli interessi e della rivalutazione monetaria - ha osservato la Corte - è iniziata con riguardo ai crediti per prestazioni previdenziali, per il quali il comma sesto dell'art. 16 della legge 30 dicembre 1991 n.412 ("Disposizioni in materia di finanza pubblica"), ebbe a stabilire che: "Gli enti gestori di previdenza obbligatoria sono tenuti a corrispondere gli interessi legali, sulle prestazioni dovute, a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l'adozione del provvedimento sulla domanda. L'importo dovuto a titolo di interessi è portato in detrazione delle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno subito dal titolare della prestazione per la diminuzione di valore del suo credito".

La norma introduceva (a seguito di contrasti interpretativi, culminati con la sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 1991, che aveva determinato una sostanziale equiparazione in parte qua dei crediti previdenziali a quelli di lavoro) la regola della non cumulabilità degli interessi legali alla rivalutazione, regola che secondo la ricordata giurisprudenza consolidata è dettata dall'art. 1224 c.c., ma non dall'art. 429 cod. proc. civ., il quale, al contrario, impone di aggiungere gli interessi al credito risultante dall'applicazione del meccanismo di indicizzazione ex art. 150 disp. att. cod. proc. civ.
I1 credito soggetto al detto divieto di cumulo, come riconosciuto dalla Corte costituzionale, muta in tal guisa natura, poichè viene inserito nel sistema dell'art. 1224 c.c., posto che gli interessi si calcolano sulla somma nominale e la rivalutazione spetta a titolo di "maggior danno", eccezionalmente ritenuto in re ipsa, per il solo fatto della svalutazione della moneta in misura superiore al tasso legale degli interessi (Corte Costituzionale, sentenza 19 ottobre 1992 n. 394).

La disciplina di cui all'art. 16, comma 6 della 1. n. 412/1991, è stata poi estesa a tutti i crediti "di natura retributiva, pensionistica ed assistenziale" dei "dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza" dall'art. 22, comma 36, seconda parte, della legge 23 dicembre 1994 n. 724 ("Misure di razionalizzazione della finanza pubblica"), ma limitatamente a quelli "per i quali non sia maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994".

Sebbene la medesima norma contempli la successiva emanazione di un decreto del Ministero del Tesoro per determinare "i criteri e le modalità di applicazione del presente comma" (comma che, peraltro, concerne anche una diversa materia), non sembra - ha osservato la Corte - che l'efficacia normativa sia subordinata all'atto regolamentare, la cui previsione è probabilmente da riferire ai comportamenti applicativi che, sul piano organizzatorio e interno, debbono essere osservati dallo Stato e dagli altri enti pubblici debitori.

Inoltre - ha rilevato la Corte - il riferimento ai "dipendenti privati" non può essere restrittivamente inteso nel senso che il debitore debba necessariamente coincidere con una figura soggettiva pubblica, perchè si tratterebbe di una lettura sicuramente non conforme al precetto dell'art. 3 Cost., nella parte in cui farebbe discendere la diversità di trattamento non alla natura giuridica del rapporto ma alla qualità di uno dei soggetti di esso; neppure è possibile ritenere il riferimento limitato ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, sia a quelli legati da rapporto di impiego pubblico che a quelli il cui rapporto è stato, come si suole - impropriamente - dire "privatizzato", atteso che le due categorie concernono entrambe pur sempre "dipendenti pubblici", ai sensi della legge n.421 del 1992 e del D. Lgs. n. 29 del 1993.

Salvi i problemi dalla successione delle norme nel tempo Si deve pertanto, riconoscere - ha concluso la Corte - che, risultando assoggettati tutti i crediti (di lavoro, previdenziali e assistenziali) al disposto dell'art. 16, comma 6 , della 1. n. 412/1991, ne consegue l'abrogazione dell'art. 429 c.p.c., nella parte in cui regola la materia degli effetti del ritardo nell'adempimento dei crediti di lavoro, e la sua sostituzione con una regola, che, sebbene presenti ancora tratti di specialità (come la liquidabilità di ufficio degli accessori in questione) rispetto a quella generale sulla responsabilità contrattuale da inadempimento (art. 1224), è tuttavia a questa omogenea e si colloca ormai all'interno di un medesimo sistema.
Solo la nuova disciplina. dunque, non consente più, di ritenere gli effetti del ritardo nell'adempimento indipendente dall'imputabilità al debitore (art. 1218 c.c.) e di considerare le obbligazioni accessorie partecipi della stessa natura del credito principale, assumendo lo stesso carattere risarcitorio.


© 2007 www.legge-e-giustizia.it