Legge e giustizia: venerd́ 26 aprile 2024

Pubblicato in : Lavoro, Fatto e diritto

COMPORTAMENTO VIOLENTO TENUTO NEI CONFRONTI DI UN CAPO SQUADRA PER REAZIONE A MOLESTIE SESSUALI - Non configura insubordinazione e pertanto non giustifica il licenziamento (Cassazione Sezione Lavoro n. 12717 del 19 novembre 1998, Pres. Mattone, Rel. Cuoco).

T.M. e R.L., moglie e marito, dipendenti della Fiat con qualifica di operaio, sono stati licenziati con l’addebito di avere atteso, al termine del turno presso il cancello di uscita, il capo squadra G.D., di aver bloccato la sua auto colpendola con calci e pugni, di averlo insultato pesantemente e di averlo colpito al viso, rendendosi in tal modo responsabili di grave insubordinazione e compiendo atti penalmente rilevanti produttivi di grave nocumento per l’azienda. I coniugi hanno impugnato il licenziamento davanti al Pretore di Torino contestando gli addebiti e sostenendo comunque che la sanzione doveva ritenersi sproporzionata, in quanto essi avevano inteso reagire al comportamento vessatorio tenuto dal capo squadra nei confronti della donna rivolgendole frasi irripetibili strettamente riferibili alla sfera sessuale, insultandola e rimproverandola pesantemente nonchè assegnandole le mansioni più pesanti. Il Pretore ha svolto l’istruttoria sia sui fatti addebitati ai lavoratori sia sul comportamento in precedenza tenuto dal capo squadra.

I testi hanno dichiarato che i due licenziati in effetti bloccarono l’auto, che vi fu uno scambio di insulti e che la vettura prese qualche colpo senza danni apparenti. Essi peraltro hanno confermato la fondatezza delle doglianze espresse dai due per la condotta del capo squadra. Il Pretore ha annullato il licenziamento in quanto ha ritenuto che i lavoratori, pur se colpevoli di un’azione di inammissibile autotutela privata, non si erano resi responsabili di insubordinazione in quanto i loro atti erano diretti non contro il datore di lavoro bensì contro colui che aveva usato un modo distorto dei suoi poteri gerarchici. Il Pretore ha inoltre ritenuto che l’azienda si sia resa inadempiente all’obbligo di proteggere la lavoratrice dalle molestie del capo squadra. Questa decisione è stata confermata in grado di appello dal Tribunale di Torino, che ha tra l’altro ritenuto che le espressioni usate dal capo squadra verso la lavoratrice, essendo riferibili alla sfera sessuale e alla libertà e dignità della donna, integravano molestia sessuale.

La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 12717 del 19 novembre 1998, Pres. Mattone, Rel. Cuoco), ha rigettato il ricorso dell’azienda, in quanto ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente motivato la sua decisione escludendo sulla base delle risultanze istruttorie, la configurabilità dell’insubordinazione. Il rapporto di subordinazione - ha affermato la Corte - investe lo spazio del potere assegnato al superiore (e dei simmetrici obblighi del dipendente a questi subordinato): non gli atti del superiore palesemente ed incontrovertibilmente esterni a questo spazio. E pertanto la (pur non legittima) reazione ad atti caratterizzati da questa palese misura di estraneità, non costituiscono insubordinazione.Nel caso in esame -ha osservato la Corte- il lamentato comportamento del capo squadra (e non solo, com'è ovvio, le molestie sessuali bensì le "espressioni particolarmente odiose" analiticamente riferite dai testimoni) il linguaggio intessuto di insulti, particolarmente nei confronti delle donne, ed il fatto di «degradare moralmente i dipendenti attentamente ricercando le occasioni di umiliazione», non costituendo un modo di esprimersi e realizzarsi del superiore nella gestione del potere gerarchico, erano palesemente estranei al rapporto di lavoro: ciò, non solo in quanto non risulta in alcun modo che il comportamento fosse materialmente attuato in occasione dell'effettivo esercizio delle mansioni di capo squadra, bensì in quanto anche ove questo materiale rapporto di occasionalità talora vi fosse, il comportamento restava ovviamente esterno alle mansioni di capo squadra (ed in tal modo non riferibile ai simmetrici obblighi del subordinato dipendente).

La reazione a questo comportamento, esterna non solo cronologicamente e topograficamente bensì causalmente al rapporto di lavoro - ha osservato la Corte - non costituiva insubordinazione (peraltro disciplinarmente rilevante ai fini della controversia solo ove assuma grave misura). Inoltre il datore di lavoro - ha affermato la Corte - ha l’obbligo di assicurare i rapporti aziendali di correttezza, educazione ed urbanità.


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